2020 Comunicati  08 / 06 / 2020

I martiri giapponesi di Nagasaki

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenzagiappone
Comunicato n. 57/20 dell’8 giugno 2020, San Medardo
 
I martiri giapponesi di Nagasaki
 
L’8 giugno 1862 Papa Pio IX canonizzò i ventisei cristiani martirizzati a Nagasaki il 5 febbraio 1597. L’articolo che segnaliamo tratta del martirio e ricorda l’importanza di Nagasaki per il cattolicesimo giapponese, città con la più grande cattedrale cattolica dell’Asia, distrutta dalla bomba atomica degli Usa.
 
La santità missionaria di san Paolo Miki e compagni martiri del Giappone
 
Paolo Miki è uno dei tre gesuiti che fanno parte del gruppo dei ventisei martiri che il 5 febbraio 1597 morivano sulla collina di Tateyama presso Nagasaki (Giappone) per la fede cattolica. Questi martiri erano sei missionari francescani spagnoli, tre catechisti gesuiti (fra cui Paolo Miki) giapponesi e diciassette laici, pure giapponesi. Sono i primi martiri di tutto l’Estremo Oriente iscritti nel martirologio. 
 
Quando il grande Francesco Saverio, straordinario pioniere della diffusione del cristianesimo in Asia, sbarcò sulle coste del Giappone, era più o meno l’anno del Signore 1550. Chissà se in cuor suo poteva immaginare quale mirabile frutto avrebbe dato il piccolo seme che si apprestava a gettare. Si fermò solo due anni in terra nipponica, aprendo la strada a tutti i missionari gesuiti, e poi francescani e domenicani, che in quelle terre lontane portarono la Buona novella.
 
In quei due anni trovò, forse inaspettatamente, un terreno straordinariamente fertile. Intorno al 1580 i cristiani giapponesi erano più di duecentomila e i missionari erano visti con una certa tolleranza se non addirittura con benevolenza, tanto da diventare parte integrante del tessuto sociale. Anche il potere sembrava favorevole: una prima delegazione giapponese fra il 1582 ed il 1584 fu inviata a Roma dallo Shogun Hideyoshi per incontrare Gregorio XIII, una straordinaria avventura raccontata magistralmente dallo scrittore cattolico Shusaku Endo nel suo romanzo Il Samurai. Ma forse fu proprio questa crescita imponente a spaventare, dando l’idea di minacciare un antico equilibrio millenario: sta di fatto che verso il 1590 il sentimento verso i cristiani mutò radicalmente e lo stesso Hideyoshi si trasformò in un implacabile persecutore, aprendo una gloriosa e dolorosa storia di violenza e di martirio che durò per oltre duecento anni. Intorno al 1680 i cristiani erano ufficialmente “estinti”. Fu solo nel 1871 che la libertà alla Chiesa venne riconosciuta e le comunità tornarono alla luce. In quei duecento anni di “buio” le tradizioni cristiane vennero tramandate oralmente, di padre in figlio, senza un prete, senza una immagine, senza un crocifisso, severamente vietati: erano i “kakure kirishitan”, gli eroici tempi dei “cristiani nascosti”.
 
Se l’antica città di Funay, oggi Oita, fu la sede della prima diocesi giapponese ante-persecuzioni, il “cuore” della cristianità nipponica è da sempre Nagasaki. Qui arrivarono i primi gesuiti insieme a Francesco Saverio; qui Paolo Miki, primo giapponese a essere accolto in un ordine religioso, fu martirizzato con venticinque compagni il 5 febbraio del 1597. Ancora qui nel 1895 si avviarono con i soli contributi dei fedeli i lavori della più grande cattedrale dell’Asia che sarà distrutta dalla bomba atomica. Nagasaki nel 1930 vide l’arrivo di padre Massimiliano Kolbe, che fondò un seminario e un convento francescano che sarà poi l’unico edificio della città a essere miracolosamente risparmiato dalla devastazione atomica, così come accaduto a quello dei gesuiti di Hiroshima. Qui viveva la famiglia Moriyama, da sette generazioni kakure kirishitan, che aveva mantenuto la tradizione della fede quando era proibita dalle leggi dello Stato. E qui visse nel ventesimo secolo Takashi Nagai, forse il più straordinario testimone della fede giapponese a noi contemporaneo. Takashi, quando da adulto chiese il battesimo, scelse per se il nome cristiano del santo che più amava: Paolo Miki.
 
Questo straordinario personaggio nacque probabilmente nel 1556 da una antica e nobile famiglia che gli impose il nome di Pooro. Suo padre, Hantaro Miki, era un samurai. Alcune fonti riportano come sua città di origine Kyoto, ma la cosa in realtà non è certa, dato che altre riferiscono fosse di Osaka e altre ancora dell’antica provincia di Awa, sull’isola di Shikoku. Quel che è certo è che quando il piccolo Pooro aveva cinque anni, la sua famiglia si convertì al cristianesimo e anch’egli fu battezzato: fu scelto per lui il nome cristiano di Paolo e da allora così si fece chiamare.
 
La sua vocazione fu precoce: entrò a dodici anni nel collegio gesuita di Azuki e intraprese gli studi che dovevano portarlo al sacerdozio. Tuttavia non riuscì mai a completare il percorso di ordinazione, anche perché la persecuzione anticristiana che nel frattempo era ripresa impedì la presenza in Giappone di un vescovo e, dunque, lo svolgimento “fisico” della consacrazione. Comunque a ventidue anni prese i voti solenni, diventando il primo “nativo” giapponese a consacrarsi alla verginità monastica.
 
A quel tempo aveva già mostrato quelle che erano le sue non comuni doti: la straordinaria particolarità di essere un gesuita giapponese, e quindi madrelingua, unita alla sua intelligenza e magnanimità, lo resero uno dei più efficaci e affascinanti predicatori dell’ordine a dispetto della sua giovane età e delle difficoltà inevitabili che incontrava nell’imparare la lingua latina e nell’accostarsi così allo studio dei testi sacri. In compenso aveva una conoscenza profondissima del buddismo e delle religioni tradizionali, tanto da diventare, a meno di trent’anni, uno dei più autorevoli interlocutori per i dotti del tempo.
 
Nel 1556 la prima ondata persecutoria voluta dallo Shogun Hideyoshi ebbe il suo culmine: un editto ordinò l’arresto immediato di tutti i missionari. Paolo venne catturato a Osaka, insieme a due compagni, e tradotto in catene presso la prigione di Mecao dove fu “aggregato” a un gruppo di prigionieri cristiani. In tutto erano ventisei: sei missionari francescani europei, tre gesuiti giapponesi — oltre a lui san Giacomo Kisai e san Giovanni Soan di Goto — e diciassette laici giapponesi, fra cui sant’Antonio Daynan, tredici anni, e san Luigi Ibaraki, dodici. Nel tentativo vano di portarli ad abiurare le loro fede, furono sottoposti a diverse torture fino a quando, nel febbraio del 1567 fu emessa nei loro confronti la sentenza di morte.
 
L’esecuzione avrebbe dovuto avvenire in modo esemplare, a monito di tutti. Furono, così, crocifissi. Il 5 febbraio furono portati su un’altura alle porte di Nagasaki che da allora è chiamata dai cristiani “la Santa Collina”. Mentre uno dei due ragazzi intonava, appeso sulla croce, un inno di lode, padre Paolo fece la sua ultima predicazione pubblica, lasciando a bocca aperta tutte le persone che avevano assistito e perdonando i carnefici che li stavano uccidendo. Fu così che quell’esecuzione, che doveva essere un atto di scherno per i condannati e una minaccia per chi avesse intenzione di avvicinarsi al cristianesimo, divenne una straordinaria occasione missionaria e il seme di una comunità che grazie a quel sangue superò due secoli di ondate persecutorie che provocarono altre messi di martiri.
 
San Paolo Miki e i suoi venticinque compagni furono beatificati già nel 1627 da Papa Urbano VIII. Un processo assai rapido, che conferma l’impressione che la loro testimonianza di fede lasciò in tutta la cristianità del tempo. Furono canonizzati insieme l’8 giugno 1862 da Pio IX. In quel periodo un libro scritto che raccontava la testimonianza di Paolo Miki finì tra le mani di un seminarista veneto il quale, leggendolo, fu ispirato a dedicare la sua vita alla missione. Si chiamava Daniele Comboni. L’ennesimo “figlio” della scia di santità lasciata da san Paolo Miki e dai primi martiri cristiani del Giappone.