L’esercito del Papa-Re

1860: le vicende risorgimentali stanno volgendo al termine e gli occhi di tutti sono puntati su Roma, destinata a diventare la capitale della nuova Italia. In un disperato tentativo di salvaguardare il potere temporale dei Papi, migliaia di giovani accorrono da ogni parte d’Europa per arruolarsi nell’esercito di Pio IX. Dalla primavera del 1860 sino al settembre del 1870, furono quasi quindicimila i soldati volontari dell’ultimo Papa-Re, destinati a scrivere una pagina della nostra storia andata poi dimenticata.

Mobilitati dai comitati diocesani formatisi in ogni nazione, si presentarono nella Roma del tramonto papalino giovani di ogni estrazione sociale: contadini e studenti universitari, figli del popolo e cadetti della più blasonata aristocrazia europea, tra cui il principe Pietro Aldobrandini, il principe Paolo Borghese, il principe Francesco Ruspoli, il principe Vittorio Odescalchi, il principe Carlo Chigi Albani della Rovere, tutti della nobiltà romana; il principe Alfonso di Borbone-Sicilia, fratello del Re Francesco II; il principe Alfonso Carlo di Borbone d’Austria-Este, successivamente pretendente carlista al trono spagnolo; il barone Athanase de Charette, discendente del leggendario eroe vandeano. Tra i romagnoli si segnalarono il marchese Zappi di Imola, i conti Filippo e Gustavo di Carpegna, il patrizio Odoardo Corbucci di San Giovanni in Marignano, il conte Emaldi di Lugo.L’articolo di Piero Raggi intende ridare un volto a questi crociati del XIX secolo che manifestarono in modo eroico il profondo amore che ogni cattolico dovrebbe avere per la Sede di Pietro. E’ la vicenda di una generazione che, di fronte ai cambiamenti epocali provocati dalle Rivoluzioni massoniche, rimase fedele alla concezione cavalleresca dell’esistenza, in nome del Papa-Re.

Introduzione

I moti rivoluzionari del 1848, che culminarono con la fuga del Papa-Re Pio IX a Gaeta e la proclamazione della Repubblica Romana, cadute le illusioni repubblicane, avevano consentito al Piemonte, anche se reduce dalla disfatta di Novara, di farsi paladino della politica italiana ed il giovane Vittorio Emanuele II aveva trovato in Cavour un protagonista all’altezza del momento, scaltro, deciso a tutto e certamente privo di scrupoli. Sono noti i suoi indovinati interventi in campo internazionale per suscitare consensi alla causa italiana (invio di una spedizione italiana in Crimea), i discutibili maneggi per convincere l’imperatore dei francesi ad intervenire in Italia per la guerra contro l’Austria. Iniziò così, nel 1859, quella campagna che attraverso le battaglie di Montebello, Palestro, Magenta, culminate con la vittoria di Solforino e San Martino, condurrà all’armistizio di Villafranca.

La sconfitta austriaca porta come conseguenza l’abbandono da parte delle guarnigioni delle Legazioni pontificie di Bologna e della Romagna, dove si formano giunte provvisorie di giovani filo-piemontesi. Pio IX protesta inascoltato dinanzi alle potenze europee chiedendo il ripristino dell’autorità pontificia e dei diritti della S. Sede, ed in Concistoro chiede la dichiarazione di nullità di tutti gli atti dell’Assemblea nazionale di Bologna, presieduta dal Minghetti.

Napoleone, spaventato dalla reazione dei cattolici francesi propone a Vittorio Emanuele una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del pontefice, ma l’ipotesi viene respinta perché giudicata contraria ai voti del popolo italiano. Le mire espansionistiche del Piemonte non si arrestano, seguirà “la spedizione dei Mille” che, senza dichiarazione di guerra, invadeva uno stato sovrano con l’aiuto della diplomazia inglese in funzione antifrancese e antiaustriaca.

Ma Garibaldi non si arresta, l’obiettivo è Roma e già alcune bande hanno varcato il confine pontificio. Le autorità pontificie si rendono finalmente conto degli avvenimenti che ogni giorno incalzano e corrono ai ripari.

L’esercito pontificio si organizza

Il piccolo esercito pontificio composto da volontari cattolici provenienti da ogni nazione, costituito al solo scopo istituzionale e di difesa dell’ordine pubblico, naviga fra mille difficoltà. Il pro-ministro alle armi, card. Giacomo Antonelli, viene sostituito da mons. Saverio de Merode, già valoroso ufficiale dell’esercito belga e francese; egli in breve tempo riesce, data l’urgenza del momento, a far sì che il piccolo esercito diventi uno strumento efficace, moderno, bene organizzato, atto a mantenere l’ordine pubblico ma anche ad opporsi all’invasione di bande di volontari che si stanno formando ai confini dello Stato. Egli si avvarrà dell’opera dell’ufficiale francese de la Moriciere, vincitore del leggendario Abd-el Kader, durante la guerra d’Algeria, che viene nominato generale in capo.

Ha inizio così la “Nona Crociata”, che attraverso la sollecitazione dei comitati di arruolamento, l’opera capillare dei vescovi e dei parroci, farà confluire a Roma i volontari provenienti da ogni paese; alcuni, come gli antichi crociati, hanno sul petto l’insegna della croce, molti saranno raggiunti dalle famiglie con armi, cavalli e denaro destinato all’armamento.

Impossibile elencarli tutti, citeremo i più illustri: tra i francesi il conte Gaspard de Boubon Chalus, il conte Leon del Lorgeril, il conte Theodore de Quattrebarbes, il barone Athanase de Charette, il visconte Alphonse de Chateaubriand, nipote del celebre scrittore, il conte Hippolite de Momint, il conte de Becdelievre, valoroso comandante dei tiragliatori franco-belgi a Castelfidardo, il conte Palphy ungherese, il polacco barone de Crovin, gli italiani conte Cesare Caimi, il principe Carlo Chigi, il marchese Giovanni Lepri, il principe Francesco Ruspoli, il conte Cesare Crispoldi, il conte Odoardo Ubaldini, il marchese Giacomo Pietramellara, ed altri ancora dal Belgio, dal Canada…

La situazione politica precipita, la sinistra ha il sopravvento e Cavour deve correre ai ripari o la situazione gli sfuggirà di mano; dinnanzi alla diplomazia internazionale si affretta a condannare i rivoluzionari (quelli che poco innanzi aveva con ogni mezzo spinti al Sud) e fattosi paladino dell’ordine, si affretta, per contrastare l’azione di Garibaldi, ad inviare un numeroso corpo di spedizione per la conquista delle Marche e dell’Umbria. Avrà così ottenuto il duplice scopo di bloccare l’avanzata garibaldina, riprendendo in mano l’iniziativa, ed atteggiarsi a nemico della rivoluzione.

La battaglia di Castelfidardo (18 settembre 1860)

Il pretesto per l’invasione non mancherà, col beneplacito di Napoleone (l’ignobile “Fate, ma fate presto”). Emissari piemontesi muniti di larghi mezzi vengono inviati nelle due regioni allo scopo di suscitare focolai di ribellione al governo pontificio, ingigantendo ad arte sporadici episodi subito repressi. La popolazione resta fedele al suo legittimo sovrano, ma Cavour non demorde, ed ogni mezzo viene escogitato per favorire l’intervento armato. La popolazione, secondo Cavour, oppressa dal governo pontificio e dalle truppe straniere, inneggia a Vittorio Emanuele e desidera ardentemente congiungersi al resto dell’Italia.

Ma tutto è già deciso: un numeroso corpo di spedizione militare al comando dei generali Fanti e Cialdini (senza dichiarazione di guerra ma dopo l’emanazione di due inqualificabili proclami nei quali vengono insultati con le più vergognose menzogne i militari pontifici) viene inviato ai confini del territorio pontificio mentre una squadra navale con materiale d’assedio si dirige ad Ancona agli ordini dell’ammiraglio Persano. L’esito non può essere che scontato anche se la diplomazia pontificia spera in un intervento francese da Roma, ma la guarnigione francese di Roma non muove un dito, ed in quello austriaco da Trieste, assai improbabile dopo l’esito infausto della guerra del ’59.

Il piccolo esercito pontificio, che ben poteva contrastare le bande di volontari italiani, si trova ora dinnanzi l’armata sarda di oltre sessantamila uomini, che ha l’ordine di far presto, di vincere ad ogni costo, evitare ogni insuccesso, superare in rapidità e decisione, per ovvi motivi politici e di propaganda, la pur fulminea marcia di Garibaldi nelle Due Sicilie.

Il giorno 11 settembre l’esercito piemontese occupa Urbino e Pesaro, il 13 viene occupata Senigallia, il 14 è la volta di Perugia e di Foligno, il 16 viene assalita Spoleto, stessa sorte toccherà al piccolo presidio di S. Leo fatto segno ad un furioso cannoneggiamento.

L’esercito pontificio non ha scampo, al gen. la Moriciere non rimane altra alternativa se non concentrare le sue truppe in Ancona per evitare una lotta impari, in attesa dell’auspicato aiuto francese e austriaco che il segretario di Stato card. Antonelli continua ad assicurare. Il giorno 15 il gen. de la Moriciere si porta con la sua brigata a Macerata dirigendosi verso Ancona, raggiunto il giorno 16, dopo un’estenuante marcia, dalla brigata Pimodan, a Loreto. Ma il Cialdini, con abile mossa, sbarra ai pontifici la strada attestandosi sulle alture di Osimo e di Castelfidardo.

Lo scontro è inevitabile. Il giorno 18 ha inizio la battaglia ed il generale Pimodan chiede l’onore di iniziare l’attacco. I pontifici hanno in un primo momento il sopravvento, bisogna ad ogni costo occupare la località delle Cascine sino alle Crocette e di qui proseguire per Castelfidardo ed aprire un varco all’armata pontificia; ma la preponderanza dei piemontesi e soprattutto la loro munitissima artiglieria rendono vano ogni sforzo, i pontifici dovranno soccombere, alcune compagini si sbandano, il gen. de la Moriciere riesce a stento a salvarsi, dirigendosi con pochi uomini verso Ancona, ed una colonna potrà raggiungere Loreto dove si arrenderà il giorno dopo. Il generale Pimodan ferito gravemente più volte cade morente tra le braccia del suo aiutante conte di Carpegna.

Quello che resta dell’esercito pontificio è ora concentrato in Ancona dove subisce un duplice attacco dal mare e da terra: la flotta del Persano, le artiglierie del Cialdini. La resistenza si protrae fino alla mattina del 28 settembre quando, distrutta la lanterna e le altre fortificazioni del porto, colpita una polveriera, scarseggiando i viveri e le munizioni, nell’impossibilità di continuare la resistenza avvengono i preliminari della capitolazione che si concluderà il giorno 30 successivo.

La Massoneria vuole occupare Roma

L’autorità pontificia non può più illudersi: il governo italiano sotto la spinta della Massoneria vuole impossessarsi dell’intero territorio della Chiesa e proclamare Roma capitale.

Siamo ai primi mesi del 1861, quando mons. de Merode riesce ancora una volta a riorganizzare un esercito sotto la guida lungimirante del gen. Kanzler, nominato pro-ministro, ufficiale con un brillante passato militare, valoroso a Vicenza nel 1848, ben voluto dai militari i quali ne riconoscono le indiscusse capacità.

Il governo italiano propone all’imperatore dei francesi il ritiro del suo contingente da Roma, la proposta viene respinta: si arriva alla famosa convenzione di settembre (15 settembre 1864) stipulata tra il governo di Parigi e di Torino, senza che il Papa, il diretto interessato, sia consultato.

La convenzione prevede l’intangibilità dei confini pontifici garantiti dal Piemonte ed il ritiro delle truppe francesi a mano a mano che saranno sostituite da quelle del Papa. Il trasferimento della capitale d’Italia a Firenze (maggio 1865) provoca nuove preoccupazioni al Papa. Nel novembre ’66 la guarnigione francese lascia definitivamente il territorio della S. Sede ed il Pontefice, nel saluto di ringraziamento con parole di tristezza, dice: “non bisogna farsi illusioni, la rivoluzione verrà qui” ed è buon profeta.

La campagna nell’Agro Romano (1867)

Ancora una volta i comitati insurrezionali, ben foraggiati dal governo italiano, faranno nascere focolai di rivolta nello Stato della Chiesa per creare il pretesto alle truppe italiane di intervenire per ristabilire l’ordine e la libertà in casa altrui. In concomitanza ha inizio l’invasione di bande garibaldine; il piano è ben preciso, attaccare il territorio pontificio in più parti e provocare disagio e disorientamento tra i difensori. Comitati di arruolamento di volontari si formano attorno allo Stato pontificio riforniti di armi, di munizioni, di vettovagliamento e addirittura comandati da ufficiali piemontesi, mentre il governo finge di non sapere e di non vedere.

Questa volta però Garibaldi si troverà di fronte compagini ben organizzate e comandate, fedeli al giuramento prestato al loro Papa e sovrano che renderanno la vita assai difficile alle sue bande ovunque disperse. Impossibile citare i numerosi episodi, le lotte sanguinose, spesso impari, sostenute con valore da ambo le parti. Ricorderemo gli scontri di Montelibretti, Farnese, Bagnorea, Subiaco e ci soffermeremo sui fatti di villa Glori, di Monterotondo, di Mentana. Il 23 ottobre il gen. Zappi riceve notizie che un nucleo di camicie rosse è stato avvistato sui monti Parioli; la colonna, composta di circa 80 uomini, scelti fra i più ardimentosi ha il compito di trasportare armi per il comitato insurrezionale di Roma. I garibaldini vengono assaliti da un distaccamento di carabinieri esteri (43 uomini), sei dragoni e un gendarme a cavallo. La mischia si conclude con l’annientamento dei garibaldini, la morte di Enrico Cairoli, il ferimento del fratello Giovanni.

I giornali risorgimentali hanno parole di lode per i volontari dichiarandoli soccombenti dinanzi ad uno stragrande numero di zuavi, mentre “gli zuavi” non intervengono affatto e le forze sono tutte a vantaggio dei garibaldini. Non si voleva ancora ammettere che i cosiddetti “mercenari” si battessero con sì grande valore.

Altro combattimento, questa volta di grande rilievo, avvenne il successivo 25 ottobre quando una colonna di circa 4.000 volontari agli ordini di Menotti e Garibaldi, assale Monterotondo, difesa da 323 pontifici e due cannoni. Tutta la giornata i garibaldini si lanciarono all’assalto della piazza difesa da una cinta fortificata. La piccola guarnigione si difende eroicamente contrastando l’attacco sino alle prime ore del giorno successivo quando i garibaldini riescono ad avere la meglio con l’aiuto di una seconda colonna di rinforzo ed entrano nel paese bruciando una delle porte. E’ questa l’unica vittoria dei garibaldini in tutta la campagna che però costerà più di 500 uomini fuori combattimento (con saccheggi, furti sacrileghi, atti di violenza verso la popolazione ostile ed il clero).

La vittoria di Mentana (3 novembre 1867)

E veniamo alla battaglia di Mentana, che segnerà definitivamente la sconfitta delle compagini garibaldine. Garibaldi è in difficoltà, di scarsa entità le operazioni militari dei suoi luogotenenti Nicotera e Acerbi, l’auspicata insurrezione romana non avviene (dirà con rammarico il Bandi: “I romani non si mossero, sarebbero bastate poche schioppettate”) dispersa la colonna Cairoli, effimera la vittoria di Monterotondo. Gli uomini di Garibaldi non ricevono alcun aiuto dalla popolazione, il freddo e la pioggia rende ancor più difficile la vita dei volontari che, mancando di sussistenza, si danno al saccheggio e alle requisizioni, invano frenati dagli ufficiali e dallo stesso Garibaldi che deve intervenire con mano pesante.

Il Papa non cessa di protestare presso il governo italiano che però, non solo non interviene, ma continua nella sua ben orchestrata farsa dando ogni assicurazione in proposito, mentre Napoleone, sollecitato dalla diplomazia europea e dai cattolici francesi, deve più volte far sentire la sua voce, minacciando un intervento armato. Inascoltato, darà ordine che una spedizione militare sia approntata con destinazione Civitavecchia; a questo punto Vittorio Emanuele, considerando che questa volta Napoleone dica sul serio, dovrà pronunciarsi condannando l’invasione garibaldina con un proclama (“L’Europa sa che la bandiera innalzata nelle terre vicino alle nostre sulla quale fu scritta la distruzione della suprema autorità spirituale del capo della religione cattolica non è la mia”), ne consegue grande scompiglio per l’ordine di scioglimento delle bande: i filo-monarchici si sentiranno sconfessati, i repubblicani accuseranno la monarchia di tradimento e di asservimento alla Francia. Mai sopite rivalità si accentueranno tra Garibaldi e Mazzini; anarchici e socialisti che portano a defezioni, insubordinazioni, liti che Fabrizi, Albano Morri e Mosto riescono con fatica a sedare mentre giunge notizia dello sbarco del contingente francese.

Il campo garibaldino si trova in grande difficoltà (le diserzioni – sono parole di Lanza, e del Mombello ufficiali garibaldini – non accennano a finire) nel campo pontificio l’entusiasmo si accresce per i tanti successi riportati e per l’arruolamento di nuovi volontari. Fra gli italiani: Lancellotti, Patrizi, Aldobrandini, Borghese, Salviati ecc.; e per gli stranieri: de Christen, Urbano e Armando de Charette, Sint Sernin, ed un apporto cospicuo dei comitati di soccorso al papato, in particolare quello francese e belga, che elargiscono armi e danaro.

La mattina del 3 novembre due colonne lasciano Roma: quella pontificia agli ordini del gen. de Courtin è composta di 2913 uomini, quella francese agli ordini del gen. Polhes di circa 2000 uomini; il comando è affidato al gen. Kanzler.

Verso mezzogiorno si ha il primo scontro tra l’avanguardia pontificia e gli avamposti garibaldini. Comanda le forze garibaldine lo stesso Garibaldi coadiuvato dai nomi più prestigiosi: Valzania, Burlando, Fabrici, Missori, Canzio, Menotti. Il Kanzler ha con sé i generali de Courten e Zappi, i colonnelli Caino, Lepri, Allet, i tenenti colonnelli Carpegna, de Charette, gli ufficiali superiori Ungarelli, Rivalta. Violenta fu la lotta, serrate le cariche e i contrattacchi, alterne, almeno in un primo tempo le sorti della battaglia che però ben presto volgerà a favore dei pontifici. Vittoria dovuta essenzialmente alle armi pontificie col modesto aiuto dei francesi che intervengono a cose fatte; pretestuosa l’azione dei chasepots che non fecero meraviglia alcuna (ancora una volta sono due ufficiali garibaldini a smentire tale favola e ridimensionare l’efficacia dell’intervento francese sulle sorti della battaglia, ma, come sappiamo, si continua ancora a dire che Garibaldi fu sconfitto dai francesi, insistendo su un grossolano falso storico; era ed è ancora difficile accettare che Garibaldi che aveva sconfitto i francesi, borbonici e austriaci e quanti altri fosse proprio battuto da quei vili “mercenari” inetti al combattimento per i quali “sarebbero bastati solo i calci dei fucili”).

Garibaldi fu lasciato fuggire, forse per intervento francese, e arrivato a Figline viene arrestato e condotto nel forte di Varignano, a La Spezia. I prigionieri vennero condotti nottetempo a Roma per sottrarli all’ostilità della popolazione, il gen. Kanzler e i reduci pontifici furono ricevuti dalle massime autorità pontificie a Porta Pia tra gli evviva e l’accoglienza trionfale della popolazione.

L’invasione della Città Santa

Dal 1868 al 1870 la calma regna nello Stato pontificio. Il governo di Firenze tace, i garibaldini battuti e dispersi sono in condizioni di non più nuocere. I soldati pontifici sono dislocati lungo le frontiere, i centri più importanti sono presidiati, Roma è tranquilla.

L’8 dicembre 1869 ha inizio il Concilio Vaticano I, con la partecipazione di 700 Padri, che avrebbe solennemente sancito il primato e l’infallibilità del Papa in materia di fede e di morale ed in quell’occasione una folla cosmopolita si era riversata su Roma. Il carnevale romano riesce splendido e tranquillo, alle feste sono presenti i componenti delle case sovrane, spodestate dal governo italiano. Il governo francese richiama in patria i militari di stanza a Roma, chiedendo sempre l’applicazione delle condizioni della Convenzione di settembre affinché fosse assicurata la libertà del Pontefice. Ampie garanzie vengono date dal governo italiano e dal re medesimo.

Intanto un fatto importante che avrebbe sconvolto tutto l’equilibrio europeo sta accadendo in Francia: antichi dissapori e la mai sopita rivalità avevano esasperato i rapporti franco-prussiani; ciò condurrà inevitabilmente alla guerra che sarà dichiarata il 19 luglio. Nello stesso giorno la Camera dei deputati italiani e lo stesso Senato approvano un ordine del giorno auspicando lo scioglimento della questione romana secondo le aspirazioni nazionali, mentre una nota diplomatica fa presente al governo francese che la situazione negli Stati del Papa si va di giorno in giorno aggravando per tumulti e disordini ed il Menabrea ha l’imprudenza di affermare che i sudditi pontifici oppressi dal “Prete” di Roma, mordono il freno sotto il giogo delle baionette straniere e anelano a ricongiungersi alla patria italiana. Ancora una volta si ripete lo stantio ritornello del 1860 e del 1867, di voler portare la libertà in casa altrui; in realtà, come vedremo, si voleva trovare un pretesto per assalire Roma. Giungono intanto notizie della guerra di Francia che annunciano un susseguirsi di vittorie prussiane.

Nel frattempo la sinistra italiana faceva pressioni sul presidente del consiglio Lanza affinché si intervenisse contro Roma, temendo complicazioni di politica internazionale ed ulteriori difficoltà per la Chiesa. Contemporaneamente la sinistra italiana invia in campo prussiano un emissario a chiedere armi per l’insurrezione contro il governo regio; si profila quella rivoluzione tanto auspicata in particolare dalla massoneria, alla quale premono soprattutto la distruzione della Chiesa Cattolica e la scristianizzazione del paese. Giunge notizia della disfatta di Sedan (2 settembre 1870) con l’imperatore vinto e prigioniero. Il Papa non ha più alleati, la minaccia italiana si fa ogni giorno più concreta ed il Lanza, dopo aver dichiarato alla Camera “che marciare su Roma sarebbe stata impresa ripugnante anche ai sultani barbareschi ed una manifesta violazione del diritto pubblico europeo” dovette rimangiarsi tutto sotto il ricatto di chi sbraitava più forte.

Iniziano da questo momento quella serie di trattative sempre respinte che hanno per scopo l’occupazione di Roma; il pretesto, come si è detto, è sempre il medesimo: i disordini in città, che in verità non avvengono, come sono buoni testimoni gli osservatori stranieri presenti nell’Urbe.

L’8 settembre una lettera di Vittorio Emanuele diretta a Pio IX chiede l’occupazione pacifica della città; la risposta del Papa (del giorno 11) non poteva che essere negativa stante la sua assurdità. La maschera grottesca dei liberatori era caduta: un forte contingente di truppe italiane è già stato dislocato lungo le frontiere e Vittorio Emanuele ordina l’assalto del territorio pontificio.

Capo dell’esercito italiano è Cadorna coadiuvato dal gen. Maze de la Roche, Cosenz, Ferrero, a lui si aggiunge Bixio. I militari occupano il 12 Orte, il giorno 15 Bixio assale Civitavecchia; costatata l’impossibilità di difendere le province a causa della grande disparità di forze, il gen. Kanzler decide di concentrare tutte le sue forze su Roma. Si hanno nei giorni successivi proposte di resa da parte di Cadorna, respinte con alto senso di dignità e del dovere dal Kanzler.

Piccoli scontri avvengono tra gli avamposti, mentre la città è tranquilla; la popolazione, infatti, è incuriosita piuttosto che inquieta, diranno gli emissari di Cadorna. Il conte Ponza di S. Martino racconta, meravigliato, delle acclamazioni che alle cerimonie per l’Acqua Marcia, per l’Ara Cœli e la Scala Santa tributa a Pio IX, il quale si mostrava convinto che gli italiani non sarebbero entrati in Roma; ma quando si seppe che la città era circondata dalle artiglierie pronte a far fuoco, invio la nota lettera al gen. Kanzler con l’ordine di non resistere ad oltranza nella difesa, bensì una protesta atta a costatare la violenza e nulla di più.

L’onta del XX settembre

Il generale Cadorna riceve l’ordine di impadronirsi di Roma con la forza, fatta salva la città Leonina. Alle cinque e dieci le prime cannonate giungono a percuotere la barriera dei Tre Archi, Porta Maggiore, Porta Pia, in seguito il fuoco diretto verso più punti delle mura viene fatto convergere su Porta Pia.

Alle 7.20 la breccia è aperta e poco dopo resa praticabile all’assalto. Subitaneo l’attacco delle fanterie italiane presto contrastato dai difensori che hanno un buon gioco perché protetti dalla cinta muraria. L’intensa fucileria si protrae ininterrottamente sino alle 9.30 circa, quando gen. Kanzler costata l’impossibilità di una difesa ad oltranza, ma soprattutto in conformità agli ordini ricevuti dal Sovrano, decide per la resa.

Viene dato l’ordine di innalzare in più punti la bandiera bianca: di ciò ne approfittano le truppe italiane che invece di arrestarsi come è nella prassi, occupano le posizioni pontificie. Alle 10.30 il combattimento è finito pressoché dappertutto; fanno eccezione i cannoni di Bixio, per cui la bandiera bianca issata sulla porta S. Pancrazio e su S. Pietro, il quale ebbe a scusarsi col dire di non averla veduta; così come fece il Cialdini ad Ancona dopo che il gen. de la Moriciere si era arreso a Persano.

Secondo più testimonianze si hanno violenze, spoliazioni, atti vandalici contro i militari pontifici che vengono sospinti coi calci dei fucili, privati delle loro decorazioni, dei cavalli, degli effetti personali in una città in preda al caos più completo provocato anche dal giungere di tanti ed improvvisati patrioti, che nessuno conosce, facili al saccheggio, all’oltraggio, anche verso i religiosi.

Le due delegazioni, quella pontificia guidata dal Kanzler, e quella italiana dal Cadorna, si incontreranno a Villa Albani per la resa, accettata per ragioni di forza.

Il mattino del giorno 21 il Papa alle 10,45 impartisce alle truppe radunate in piazza S. Pietro l’ultima benedizione in lacrime, quasi sorretto dai suoi prelati. I militari cui fu riconosciuto l’onore delle armi saranno passati in rassegna dai loro comandanti, indi condotti in prigionia verso le fortezze di Alessandria, Verona, Mantova, Peschiera.

Anche questa volta — la cosa si era ripetuta dieci anni prima per i reduci di Castelfidardo — il viaggio avviene tra gli insulti della teppaglia e le scorrettezze gratuite dei militari italiani. Tra la fine di settembre e il 15 ottobre tutti i militari rientreranno alle loro sedi, fatta eccezione per quei pochissimi che accetteranno di far parte dell’esercito italiano.

Conclusione

Questi i fatti militari in estrema sintesi; ma non si può trascurare ciò che le cronache d’allora hanno consegnato alla storia: la partecipazione alla crociata fu del fiori fiore del cattolicesimo e delle famiglie nobili di tutta Europa e non solo, si pensi ai canadesi e agli americani. Accorsero i giovani, infiammati dall’azione dei comitati e dei sacerdoti che inneggiavano alla difesa di Roma quale novella Gerusalemme minacciata dagli “infedeli” di quel tempo, massoni, rivoluzionari, atei delle diverse colorazioni. Accorsero i rappresentanti, assai meno giovani, di grandi famiglie offrendo il loro braccio, già valoroso in altre battaglie, il loro danaro; sì, “legittimisti, e retrogradi” come si sbraitava anche in quel medesimo tempo, ma pur fieri di andare a difendere una causa “santa”, cioè disposti a sacrificare il bene della vita per un bene supremo, senza alcuna contropartita se non l’orgoglio di quella “santa causa”.

Il momento storico stava cambiando radicalmente, altri ideali si profilano, le autorità costituite da secoli addietro subiscono attacchi da più parti, l’ideale religioso non è indenne da questa prova; ma proprio per questo ancor più meritevoli sono coloro che vi si consacrarono.

Perdurano a tutt’oggi pregiudizi e stereotipi inutili, frutto della propaganda del vincitore, che poco obbiettivamente ingiuria, non riconoscendo le motivazioni ideali di coloro che gli si oppongono. Non si può tacere la connivenza di certa storiografia, che dopo oltre un secolo non riesce a liberarsi dal controllo ideologico, venendo meno a quell’onesta intellettuale che dovrebbe caratterizzare gli uomini liberi.

Piero Raggi