Insorgenze Cattoliche

Indice


Documenti sulle insorgenze antigiacobine in Romagna

Proclama delle popolazioni della Romagna ai Cisalpini

I Popoli della Romagna ai Francesi, Cispadani e Traspadani
Chiunque voi siate, che vi dimostriate premurosi di farci pervenire le minacce di una prossima invasione, è necessario che conosciate quei sentimenti di cui è penetrato l’animo nostro. Noi rispettiamo ed amiamo la Religione, il Sovrano, e la Patria. Intimamente persuasi che nel difenderci dalle vostre Armi si tratti della difesa di questi tre oggetti, siamo pronti a spargere fino all’ultima stilla del nostro sangue per opporci e resistere alle vostre ostilità. Non sono queste le voci di pochi, sono quelle delle intiere Popolazioni di questa Provincia. Noi non offendiamo alcuno, noi viviamo tranquilli nel seno delle nostre famiglie. Ma se mai voi per un tratto di quella sublime tirannia, che ardite chiamare Libertà tentate di portar la guerra nelle pacifiche nostre contrade, sappiate che potrete sterminarci, ma non soggiogarci, che ad ogni passo avrete a combattere una popolazione, la quale preferisce la morte alla disgrazia di esser da voi conquistata. Questi, sono i nostri sentimenti, conosceteli, e preparatevi pure a marciare contro di noi. (Ottobre 1796)
(Biblioteca Comunale di Forlì, Fondo Piancastelli).

L’Epitaffio della Repubblica Cisalpina

Qui giace una Repubblica,
Già detta Cisalpina,
di cui non fu la simile
Dal Messico alla China.
I Ladri la fondarono,
I Pazzi l’esaltarono,
I saggi l’esecrarono,
I Forti l’ammazzarono;
In questo sol mirabile
Carogna non più udita,
Che non puzzò cadavere
Ed appestava in vita.
(Biblioteca Gambalunga di Rimini, Raccolta Bandi Zanotti).

Inno contrapposto al patriottico in segno di allegrezza per l’abbattuta demagogia

Or che abbattuto è l’albero
infame empio infernale
origine fatale di tanta iniquità
Splendan sereni ed illari
i giorni in questo lido
alziam un lieto grido
chiediamo al ciel pietà.
Viva l’impero vivano
le vincitrici schiere
veggio d’arte e bandiere
l’aria folgoreggiava.
Bello è il sentir d’ogni angolo
in si bel dì giocondo
di Francesco secondo
il nome risonar.
L’indegno democratico
non osa alzar la testa
se no per lui la festa
tragica si farà.
Fugga l’audace incredulo
dalle falangi al lampo
e cerchi asilo e scampo
in mezzo all’empietà.
O schiatta giacobina
dove t’asconde e celi
vendetta il mondo e il cielo
gridan contro di te.
Già nell’Italia tornano
i bei giorni felici
l’aquile vincitrici
già qui ferman il piè.
Non più del tempio vegonsi
ministri vilipesi
i sacri altari illesi
or son dall’empietà.
Al tacito cenobio
il monaco ritorni
a respirar suoi giorni
in santa carità.
La verginella profuga
timida mal sicura
alle sacrali mura
al pié rivolga e il cuor.
Tra le paterne braccia
canto del suo periglio
il più prodigo figlio
piange il passato error.
Evviva l’invittissimo
di tante glorie onusto
l’imperator Augusto
d’Austria lume e splendor.
(Biblioteca Gambalunga di Rimini, “Giornale di Rimino” di M. Zanotti).

Elenco de’ partigiani della Francia

Scismatici, Appellanti, Giansenisti,
Perfidi Ebrei, Cattolici mentiti,
Apostati rubelli, e Fuorusciti,
Luterani, Ugonotti, Calvinisti,
Politici malnati, e rei Statisti,
Ciurmatori, Buffoni, Parassiti,
Ruffiani, Sanguinarj non puniti,
Miscredenti, Mastini, ed Ateisti,
Preti ignoranti, e Frati malcontenti,
Giovani scapestrati, e Vecchi insani,
Teste sventate, e spiriti insolenti,
Torbidi ingegni, e cervellacci strani
Or dati alle rapine, e ai tradimenti,
Questi son della Francia i Partigiani.
(Biblioteca Gambalunga di Rimini, Fondo Gambetti Stampe Riminesi).

Le Insorgenze in Romagna durante il triennio giacobino (1796-1799)

Testo della relazione di Marco Rossi tenuta il 18 dicembre 1999 a Rimini durante il convegno svoltosi nella Sala degli Archi, nel Palazzo dell’Arengo, sul tema: “Bilancio del bicentenario delle Insorgenze antigiacobine a Rimini e nelle altre città degli antichi Stati Italiani. La vittoria della verità storica sulle mistificazioni della storiografia ufficiale”. È stato conservato lo stile parlato. Il relatore, sulla scia degli studi dello storico Francesco Mario Angoli, ripercorre le tappe salienti delle Insorgenze in Romagna, tracciando una mappa provvisoria.

Introduzione (redazionale)

1796: le truppe rivoluzionarie francesi, guidate da Napoleone Bonaparte, invadono l’Italia imponendo un nuovo Ordine sociale apertamente anticristiano. Con l’aiuto dei collaborazionisti giacobini italiani, gli invasori rovesciano i legittimi sovrani dai loro troni, pretendono dalle popolazioni ingenti contributi di guerra, impongono ai giovani la leva obbligatoria, fanno razzia delle opere d’arte e delle ricchezze di ogni genere, ma soprattutto scatenano un’ondata di vessazioni nei confronti della Chiesa Cattolica.

Il Papa Pio VI, anziano e malato, viene arrestato e deportato in Francia, dove morirà di stenti; le chiese vengono profanate, gli arredi sacri saccheggiati, i monasteri soppressi, i beni ecclesiastici incamerati, il clero perseguitato. Nella Penisola, una volta soppressi i diversi Stati – formalmente ancora cattolici, ma da tempo corrosi dall’assolutismo regio e dallo spirito illuminista – si formano delle repubbliche fantoccio, al servizio della repubblica francese.

In molti casi l’aristocrazia – sempre più decadente e infedele al proprio ruolo storico di difendere con le armi la Cristianità – non si schiera, come dovrebbe, a difesa della Religione e delle istituzioni cristiane. Sono le popolazioni cattoliche, con il sostegno dei parroci e dei frati, a insorgere spontaneamente a difesa dell’Ordine cristiano minacciato dai nemici del Trono e dell’Altare.
E’ la storia delle Insorgenze popolari antigiacobine e antinapoleoniche, che dal 1796 sino al 1815, a fasi alterne videro contadini ed artigiani, montanari e pescatori insorgere, armati di forconi, bastoni e vecchi archibugi, per salvaguardare i valori ed i corpi sociali cristiani, portando sulle giubbe gli scapolari della Santa Vergine e le coccarde coi colori delle loro terre in contrapposizione alle coccarde tricolori dei giacobini.

Dalle colline del Monferrato alle isole della Dalmazia, dalle vallate bergamasche alle terre calabresi, ovunque gli Insorgenti si distinsero per la fedeltà alla Chiesa ed ai legittimi sovrani: la Massa Cristiana nel Piemonte sabaudo, i difensori di San Marco in tutta la Serenissima Repubblica, le Milizie di Andreas Hofer nel Trentino imperiale, i “Viva Maria” nella Toscana granducale, i popolani a Trastevere e nei Castelli Romani, l’Armata della Santa Fede nel Regno borbonico…
Nella Romagna pontificia l’audacia del popolo fedele al Papa-Re fu così eclatante da far esclamare agli ufficiali francesi: “Questa è una nuova Vandea!”. Decine di migliaia di Insorgenti – dimenticati volutamente nei libri di scuola – versarono il loro sangue in nome di Gesù e di Maria, nel disperato intento di impedire la distruzione dell’edificio religioso e sociale della Cristianità.

Nel 1799 l’eroismo degli Insorgenti, con l’aiuto determinante delle truppe austro-russe, valse una momentanea vittoria sugli invasori rivoluzionari e sui giacobini italiani. Le repubbliche fantoccio si sciolsero come neve al sole, gli alberi della libertà furono abbattuti, i vessilli della Tradizione cattolica sostituirono i tricolori della Rivoluzione. Per qualche mese i governi di reggenza ripristinarono i diritti della Chiesa e l’ordinamento cristiano; nel 1800 Napoleone riporterà la tirannide nelle terre italiane sino al 1814.

Millesettecentonovantasei

Lo scoppio della Rivoluzione Francese del 1789 lasciò Rimini nella consolidata tranquillità dell’Antico Ordine: la paura di uno sconvolgimento religioso e politico simile a quello francese non preoccupò le tranquille popolazioni degli Stati Pontifici, se non per i racconti dei sacerdoti francesi “refrattari” (chiamati così perché avevano rifiutato di giurare fedeltà alla Costituzione civile del clero) che si rifugiarono nelle nostre contrade e che descrissero le atrocità, le violenze e le rapine che le truppe rivoluzionarie stavano perpetrando nelle terre cattoliche di Francia, in particolare in Vandea. Il popolo cattolico della Romagna pontificia, non immaginava l’immane opera di scristianizzazione che le società segrete avevano elaborato e che stavano diffondendo in tutta l’Europa.

Quindi i nostri avi furono colti di sorpresa dalle truppe rivoluzionarie che nel 1796 invasero i territori degli Stati Pontifici; nonostante questo reagirono con prontezza, forza e coraggio per difendere la Religione, il loro legittimo sovrano e la loro terra.

Napoleone nomina il generale Augerau comandante supremo di tutte le armate francesi impegnate nella campagna d’Italia, e a lui affida il compito di sradicare con forza la secolare fedeltà delle popolazioni italiane nei confronti dei loro sovrani. A lui ordina di espropriare ogni tesoro e ricchezza del nostro Paese utile per sostenere la campagna di espansionismo in tutta Europa.

Il gen. Augerau in pochissimi mesi, attraversando i territori del Regno di Sardegna e la Lombardia, che in quell’epoca si trovava sotto il governo austriaco, giunge negli Stati Pontifici e obbliga il pontefice Pio VI a cedere immediatamente (23 giugno del 1796) le Legazioni di Bologna e di Ferrara già occupate militarmente, lasciando quindi di dominio pontificio solamente la Legazione di Ravenna, che comprendeva le città di Rimini, Forlì, Faenza e Cesena.

Nonostante gli accordi, il gen. Augerau, lo stesso giorno in cui firma il trattato, invade i territori di Forlì e Rimini. Da questo momento nasce l’epopea controrivoluzionaria che vede le popolazioni delle nostre terre armarsi con schioppi e carabine da caccia, ma anche e soprattutto, di falci, forche e bastoni formando così quella che lo stesso Augerau definì “l’Armata apostolica”.

La prima popolazione a insorgere contro le truppe del generale francese è quella di Forlì il 2 giugno 1796.

27 giugno 1796: insorge Ravenna con tutto il contado (Santerno, Alfonsine, Piangipane, Glorie, Mezzano e i paesi limitrofi);
29 giugno 1796: insorge Faenza dove il popolo disarma le truppe francesi e rinchiudendole nella rocca mette i giacobini locali in condizioni di non nuocere;
30 giugno 1796: insorgono Lugo, Rimini, Massalombarda, Fusignano, Argenta, Bangara, Solarolo, Conselice, Bagnacavallo, S.Agata: come narrano le cronache dell’epoca, tutta la bassa Romagna era in armi.

La fine del 1796 vede insorgere anche Cesena: a capo della rivolta vi è Francesco Ceccaroli, di origini aristocratiche; una circostanza, questa, piuttosto rara, poiché una parte della nobiltà, per questioni di opportunismo, tenne un comportamento ambiguo e, in diversi casi, apertamente filo-giacobino. Da Cesena la rivolta si diffuse in tutti i villaggi circostanti: Capocolle, Ranchio, Rontagnano, Berinoro, Meldola, Ciala, Mercato Saraceno, Tessello, Linoro, Polenta, Sarsina, Teodorano, Falcino, Forlimpopoli, Castelbolognese.

Tra tutte queste prime insurrezioni, una in particolare merita un approfondimento: quella di Lugo di Romagna che, nei suoi otto giorni di guerriglia cittadina, rappresenta una tra le rivolte più tragiche della nostra storia. Lugo era una cittadina di 8.000 abitanti, tra le più fedeli al Legato pontificio; anzi, proprio per questo motivo ottenne agevolazioni fiscali che permisero un notevole sviluppo del commercio.

Il giansenismo ed il giacobinismo non avevano per nulla attecchito su questa popolazione che da secoli godeva del buon governo del Papa-Re. Il 30 giugno 1796 arrivano a Lugo due commissari francesi per prelevare beni preziosi per un valore particolarmente elevato, pari a 4 milioni come contributo di guerra. Tra i beni prelevati ci fu il busto di Sant’Ilaro, patrono di Lugo e questa fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Francesco Mongardini, ex miliziano pontificio, di professione fabbro e soprannominato il “Morone”, con 20 uomini assalta il Collegio Trisi in cui erano depositati i beni sequestrati e riprendendo la statua di Sant’Ilaro la riporta in processione con enorme affluenza di popolani alla chiesa del Carmine; nel frattempo altri insorti si impadroniscono delle armi all’interno della Rocca. Dopo vari tentativi diplomatici il gen Augerau invia 60 uomini per ristabilire la calma, ma sono circa 200 i lughesi pronti ad affrontarli e per le truppe francesi non c’é nulla da fare. Il Cardinale Chiaramonti (futuro Pio VII) cerca una soluzione pacifica e la ottiene: amnistia per ribelli ma occupazione militare di Lugo. La stessa sera in cui si domanda al popolo l’accettazione dell’accordo, i francesi non rispettano i patti e invadono Lugo prima dei termini. Il popolo grida al tradimento e questa volta sono mille gli insorti che si oppongono all’armata francese, che conterà al termine della battaglia 200 morti contro i 30 degli insorti lughesi. A questo punto il gen. Augerau vista la tenace resistenza della cittadina invia un battaglione di fanteria, 200 cacciatori a cavallo e due mortai. Questa volta per gli insorti che combattevano al grido di “Viva Sant’Ilaro, viva il Papa-Re” non ci fu nulla da fare: la città viene messa a ferro e fuoco e l’intera popolazione sottoposta a violenze di ogni genere.

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Il 1797 si apre con l’Insorgenza di Urbino il 24 febbraio dove viene abbattuto l’albero della libertà al grido di “Viva Maria! Viva San Crescentino!”; in poche settimane vennero stampate 50.000 immagini di San Crescentino, che gli insorti portavano sui cappelli per contrapporle alla coccarda tricolorata dei francesi.

Il 1797 è l’anno della sollevazione di tutte le campagne del Montefeltro e delle Marche. Qui emerge in tutto il suo coraggio la figura di Gianbattista Morelli, capo di tutti gli insorti di S. Angelo di Vado, San Leo e Urbania. Una relazione di parte giacobina, particolarmente faziosa nel linguaggio, inviata alla Giunta di difesa generale di Bologna, così si esprime: “La Vandea della Francia sembra rinascere sulle vicine nostre montagne. Non é possibile individuare il preciso numero degli insorti … l’odio loro è rivolto in particolare verso i francesi e le loro rapine contro gli effetti che appartengono alla repubblica … sono divisi in due bande chi lotta in nome del Papa e chi in nome di una indipendenza territoriale ma entrambe le fazioni professano la più alta venerazione alla Beata Vergine di cui portano l’immagine sul cappello e in nome della quale assassinano piamente quelli che credono di contrario partito … il loro coraggio confina con la temerità … sono composti da fanciulli, giovani e vecchi ma i vecchi sono i più feroci, i più implacabili…”.

Marzo 1797: a insorgere è Montegrimano alla guida di Don Maffei; seguono Macerata e Sant’Agata Feltria, Monte Cerignone e Penna. Il 28 febbraio 1797 è la volta di Forlì dove le cronache raccontano come durante una cerimonia di innalzamento dell’albero della libertà, l’operaio Lorenzo Bofordi si reca sotto la vicina statua della Madonna ed intona il canto delle litanie della S. Vergine. Tutto il popolo forlivese presente si unisce al canto con conseguente tentativo da parte delle autorità francesi di sopprimere questo atto considerato eversivo, che immediatamente provoca colluttazioni e rivolta di popolo. Il 5 marzo del 1797 vede la coraggiosa presa della fortezza di San Leo da parte degli insorti di tutte le montagne circostanti. Sempre nel marzo 1797, l’Insorgenza si allarga a tutta la Val Conca, dove i soli paesi di Tavoleto e Sogliano fornirono più di 1.300 insorti.

A guidare questa Insorgenza era il parroco di Tavoleto, Don Pietro Galluzzi, che aveva ordinato ad ogni insorgente di portare cucito sul berretto l’immagine della Santa Vergine. La rivolta capeggiata dal coraggioso parroco ha però un tragico epilogo quando le truppe francesi capeggiate dal sanguinario gen. Sahuguet, conosciuto per aver fatto stragi anche in terra di Vandea, saccheggia e distrugge Tavoleto operando una vera e propria carneficina degli insorti, i cui cadaveri, come raccontano le cronache dell’epoca, a mucchi venivano lasciati ai bordi delle strade e sparsi nei campi. Don Galluzzi riuscì a salvarsi: al suo posto venne ucciso Don Gregorio Giannini, un anziano sacerdote da anni costretto a letto. Non per questo però l’Insorgenza è domata, come dimostra un trattato del 1° aprile che prometteva premi in denaro a chi catturava insorgenti in armi. Il 6 luglio 1797 tutti gli Ordini religiosi di Rimini vengono soppressi. Gli unici rimasti in vita (verranno poi soppressi nel ’99), sono i Domenicani che vengono assegnati all’allora convento dei Servi di Maria. Tutte le chiese, conventi e edifici religiosi vengono trasformati in stalle, scuderie per cavalli, caserme per soldati francesi con conseguenti profanazioni di oggetti sacri e furti di opere artistiche.

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Il 1798 si apre con l’insurrezione di Faenza che si protrae dal 2 al 5 febbraio; l’8 e il 9 aprile invece a sollevarsi è ancora Ravenna. A Rimini il 30 giugno in un discorso pubblico, il giacobino Camillo Gioanetti sostiene che “tutti i papi sono stati degli anticristi”: queste parole provocano vivaci reazioni nel pubblico e seguenti sommosse e rivolte. Il 1798 è l’anno in cui vi è l’occupazione di Roma e la conseguente proclamazione della Repubblica Romana. Pio VI, ormai ottantenne, viene mandato in esilio in Francia dove morirà un anno dopo in seguito ai tormenti del viaggio e dei continui spostamenti. Illuminante in questo senso la frase che lo stesso Pio VI disse al momento di lasciare la Città eterna: “La mia sovranità viene da Dio e non dagli uomini, e perciò non posso rinunziarvi, nella mia età di ottantenne non ho nulla a temere, e soffrirò tranquillo ogni strazio che di me potrà fare chi ha la forza in mano”. A lui seguirà un altro papa cesenate, il Card. Chiaramonti, che allo stesso modo del suo predecessore fu esiliato in terra francese dalla quale tornerà solo nel 1814.

Il ’98 è anche l’anno della coalizione tra Inghilterra, Austria, Russia e Turchia per fermare l’espansione napoleonica. Gli effetti di questa coalizione si mostrarono decisivi negli avvenimenti che l’anno seguente coinvolsero la città di Rimini.

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Il 1799 è l’anno della grande Insorgenza che portò alla liberazione della Romagna dalle truppe rivoluzionarie (liberazione momentanea, in quanto l’anno seguente i francesi riprenderanno i territori perduti). Il 17 maggio 1799 il Conte Matteo Manzoni, proclamato Comandante in campo di tutte le forze controrivoluzionarie di Lugo, forte dell’avanzata delle truppe austro-russe comandate dal gen. Suvarow, al grido di “Viva Francesco II! Viva Pio VI!” abbatte i simboli repubblicani e affigge stemmi pontifici e immagini della Santa Vergine. Il 7 aprile 1799 avviene la prima Insorgenza di Rimini. Come racconta il cronista Zanotti nel suo manoscritto “Giornale di Rimino”, la causa della sollevazione é la negazione da parte delle autorità francesi di portare in processione la statua della S. Vergine dell’Acqua a cui il popolo riminese era particolarmente devoto, invocata in particolare nei periodi di siccità o di abbondanza di piogge. La processione si doveva tenere entro il sagrato della Chiesa e non percorrere le pubbliche vie. Al momento in cui i sacerdoti giunti al termine del chiostro si apprestavano a rientrare in chiesa, dalla grande moltitudine (le cronache parlano di circa 8.000 persone, fra cui molti contadini confluiti dal contado per la cerimonia) si levò un grido unanime: “Fuori la processione! Viva Maria!”. Scrive lo storico Francesco Mario Agnoli, le cui ricerche d’archivio sono state determinanti per questa mia relazione: “…alcuni preti tentano di rifiutarsi, altri, come don Antonio Chiodini, famoso in città per le sue doti di predicatore e per il suo antigiacobinismo, si adeguano prontamente alla volontà della folla, conducendo verso la piazza la processione, che le guardie nazionali qui collocate a tal fine tentano invano di fermare. L’ufficiale comandante punta una pistola al petto del chierico che regge la croce, minacciando lui e i vicini della vita, ma, evidentemente, è passata una parola d’ordine. I contadini questa volta sono organizzati e rispondono alla minaccia impugnando i bastoni, le roncole e le mannaie celate fino a quel punto sotto i panni e precipitandosi sulle guardie, che si volgono a precipitosa fuga sicché la processione, pur abbandonata alla chetichella da molti preti, timorosi delle reazioni dell’autorità, può compiere interamente il percorso consacrato dalla tradizione” (da: “Le Insorgenze antifrancesi in Italia nel triennio giacobino (1796-1799)”, ed. Apes, Roma 1992, pag. 193).

Il 27 maggio insorgono Saludecio, Montecerignone, Sasso Feltrio, Pennabilli e tutte le vallate tra il Cesenate e Montefeltro. A Pennabilli gli Insorgenti, guidati dal dottore Luigi Guidi, abbattono l’albero della libertà e, reso omaggio alla Madonna delle Grazie, si dirigono verso S.Leo che dalla presa del 1797 era stata rioccupata dai francesi. Il 12 luglio sarà ancora una volta in mano degli Insorgenti. Il 30 maggio 1799 viene liberata Faenza che, occupata di forza dalle truppe del gen. Hulin, viene assalita dagli insorti di Forlì, Lugo e Ravenna coalizzati insieme, tanto da costringere il generale con tutte le sue truppe ad una precipitosa fuga. A Forlì il marchese Francesco Paolucci, a capo del “Direttorio Segreto della Felice Insorgenza”, disarma la Guardia nazionale, procede all’abbattimento di ogni simbolo rivoluzionario e ordina l’arresto di tutti i collaborazionisti giacobini. Nello stesso giorno divampa la Grande Insorgenza riminese. Questa nostra giornata commemorativa si riferisce principalmente a quel 30 maggio del 1799: è la pagina storica in cui compare con tutta la sua forza e la sua audacia la figura di Giuseppe Federici, alla cui memoria oggi abbiamo scoperto una lapide tra le mura del Borgo San Giuliano che, insieme al Borgo S. Nicolò, raccoglieva il maggior numero di pescatori. All’epoca dei fatti, come narra sempre lo Zanotti, Rimini era occupata dalle truppe del gen. Fabert, che erano in allarme in seguito all’avvistamento al largo della costa riminese di un vascello austriaco, comandato dal tenente Carlo Martiniz. Il generale temendo uno sbarco improvviso fa costruire delle trincee nelle quali colloca alcuni cannoni per rispondere ad eventuali bordate della nave, ma proprio quando si apprestava ad ordinare il fuoco, venne assalito da un gruppo di marinai e pescatori riminesi, incitati da un anziano “Parone” (proprietario di barca) di nome Giuseppe Federici, soprannominato il “Glorioso”, che con sassi, remi e bastoni si precipitarono sui francesi costretti a riparare in città. Lo Zanotti, nella sua opera già citata, così descrive il Federici: “(…) Li precede il Parone Giuseppe Federici nostro borgheggiano chiamato volgarmente “il glorioso”. Uomo alto di statura, ed attempato, che da lunga ed oscura berretta in testa distinto, e da nera giubba vestito, abbraccia un grosso e tronco fucile e capo si scorge dell’insorta marinareccia. Si tengon dietro alcuni suoi fratelli, è una turba numerosa di gente sussurrante dal porto…”.

Il Martiniz, resosi conto dell’accaduto, ha in questo modo la possibilità di entrare in porto, scendere a terra e marciare al fianco dei pescatori verso la città dove erano rifugiati i francesi. I soldati di guardia alle porte non oppongono resistenza e gli insorti per le strade del centro chiamano i cittadini alle armi al grido di “Morte alla Repubblica! Morte ai giacobini! Viva il Papa! Viva l’Imperatore! Viva la Religione!”. La folla degli insorti ingrossa ed il Fabert preferisce lasciare Rimini per la porta di San Giuliano. Alla fuga dei francesi segue l’abbruciamento degli alberi della libertà, la distruzione delle insegne repubblicane, la neutralizzazione dei giacobini riminesi. Il giorno seguente è dedicato ai festeggiamenti: una gran massa di contadini proveniente dai monti armati di falci, zappe, mannaie, spade rugginose e qualche archibugio festeggia nelle piazze, ma la festa è interrotta dalla notizia che il Fabert anziché dirigersi verso Bologna, come si era creduto, sta rientrando in Rimini attraverso il Borgo San Giuliano. Il Martiniz, coadiuvato dal Federici, riorganizzano la massa di insorti e dopo uno scontro di circa un’ora costringe il Fabert a ripiegare su Santa Giustina. A questo punto emerge l’esperienza militare del tenente Martiniz che anziché ritornare alla tranquillità sino a nuovo attacco del nemico, organizza rapidamente una sessantina di cavalleggeri con i quali piomba nel cuore della notte sulle truppe del Fabert, accampate appunto a Santa Giustina, costringendolo, dopo un breve combattimento, ad una definitiva rotta. Il Fabert riuscirà a fuggire a San Leo, dove però sarà catturato e fatto prigioniero dagli insorti. Con questo episodio termina la breve cronologia delle più importanti Insorgenze della Romagna pontificia durante il triennio giacobino.

Prima di concludere vorrei attirare l’attenzione su un avvenimento che si verificò a Rimini nel 1796, apparentemente senza legami con i moti insurrezionali antigiacobini. In quell’anno un’immagine della Madonna mosse miracolosamente gli occhi, fatto registrato anche in altri luoghi dello Stato della Chiesa. Inserisco questo episodio all’interno della cronaca delle Insorgenze antirivoluzionarie poichè ritengo che la Santa Vergine, con questi miracoli, abbia voluto rafforzare la fede dei suoi figli in un momento di particolare prova, come premio per la fedeltà rivoltale nel corso di tanti secoli. L’Immagine della Santa Vergine oggetto del miracolo era quella conservata nella Chiesa della confraternita di San Girolamo, (chiesa andata distrutta con gli indiscriminati bombardamenti americani della seconda guerra mondiale) opera di Giovan Battista Costa; una copia fu eseguita dal Soleri e collocata nella chiesa di Santa Chiara, protagonista del famoso miracolo del 1850. Lo Zanotti, nel suo “Giornale di Rimino”, così descrive il miracoloso episodio del 1796: “La sera del 20 luglio si sparse la voce a Rimini di uno strepitoso prodigio in un’immagine della B.ma Vergine che le pupille alzava al cielo, ora e le abbassava a terra. A tale notizia tutto il popolo si affollò ad ammirarlo e veduto da non pochi ne rimase estremamente commosso prorompendo in pianti sospiri ed esclamazioni. Per ben due ore mi stetti assai da vicino di proposito all’immagine, ed ebbi la particolarissima consolazione di scorgere le brillanti sue pupille volgersi ora da uno ora dall’alto lato, ed ora alzarsi ed ora abbassarsi. Un soave angelico piacere inondò allora l’umiliato mio cuore l’alma rallegrassi in non usitato modo”.

Questo miracolo fu seguito nei giorni successivi da cerimonie e processioni a cui partecipò l’intera popolazione riminese. Concludo con una considerazione finale. Il fenomeno della controrivoluzione è del tutto sconosciuto al grande pubblico. Studiando e approfondendo questo periodo storico si resta impressionati da come nelle Legazioni romagnole ed in tutti gli antichi Stati italiani, migliaia di persone siano insorte per difendere la religione cattolica e la civiltà. Si rimane ancora più stupiti quando si pensa come la storiografia ufficiale abbia saputo occultare tutto questo e cancellarlo dalla coscienza popolare. Eppure gli Insorgenti della fine del XVIII secolo hanno molto da insegnare agli uomini del XX secolo: in particolare ci insegnano che la Fede non deve essere strumentalizzata o avvilita dall’autorità costituita ma, al contrario, posta come fondamento di ogni istituzione e presa come punto di riferimento da ogni buon governo.