2014 Comunicati  26 / 05 / 2014

Libia, la nuova Somalia

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 53/14 del 26 maggio 2014, San Filippo Neri

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L’attacco al Parlamento libico di domenica scorsa e la sospensione della stessa assemblea legislativa dietro decisione di un ex generale dell’esercito ha gettato il paese nordafricano ancora più nel caos e reso sempre più concreto lo spettro della guerra civile dopo quasi tre anni dalla “liberazione” dal regime di Gheddafi favorita dalle bombe della NATO. Dopo l’operazione contro il Parlamento per mano di alcune milizie fedeli al generale Khalifa Hifter, un altro generale alleato con quest’ultimo ha annunciato in diretta televisiva che i 60 membri dell’assemblea costituente libica verranno investiti del potere legislativo, mentre l’attuale governo funzionerà come esecutivo di emergenza. Lo stesso portavoce delle forze protagoniste dell’assalto al Parlamento, generale Mokhtar Farnana, ha poi negato che quello andato in scena domenica sia un colpo di stato, ma ha affermato che la decisione è stata presa per evitare che la Libia diventi “un incubatore del terrorismo”. Bersaglio dell’operazione sono stati in particolare i parlamentari islamisti, accusati di avere favorito il proliferare di milizie estremiste nel paese. Nella giornata di lunedì, il governo libico uscente ha però respinto le direttive provenienti dal generale Hifter, condannando l’attacco al Parlamento che avrebbe fatto 2 morti e più di 50 feriti. Inoltre, il comandante delle forze armate regolari ha chiesto ad altre milizie – questa volta di ispirazione islamista – di dispiegare i propri uomini a Tripoli per combattere le formazioni golpiste guidate da Hifter, con il rischio di innescare un conflitto interno ancora più sanguinoso. Ad aggiungere confusione al già caotico scenario, alcune fonti governative hanno rivelato che ad appoggiare Hifter sarebbero state due milizie – al-Qaaqaa e Sawaaq, le due maggiori attive a Tripoli – che avevano finora operato a fianco dell’Esecutivo per cercare di mantenere l’ordine, come è ormai pratica comune nella Libia del dopo-Gheddafi. Il Parlamento che Hifter sostiene di avere sciolto appare in stato di completa paralisi e diviso tra fazioni islamiste e secolari, a loro volta sostenute da svariate milizie. Recentemente, un nuovo primo ministro era stato scelto dai deputati islamisti ma la nomina è stata definita illegittima dai loro rivali, così che il premier ad interim non ha ancora formato il nuovo gabinetto. Secondo un deputato sentito dalla TV libica, l’attacco del fine settimana sarebbe avvenuto precisamente per impedire che il Parlamento ratificasse la formazione dell’esecutivo, dopo che proprio domenica i suoi membri avevano ricevuto la lista dei ministri proposti per farne parte.

I gruppi messi assieme dal generale Hifter sono legati alle milizie di Zintan, nella Libia occidentale, e rappresentano la forza principale nelle file anti-islamiste di Tripoli. L’altra forza dominante nella capitale è costituita invece da formazioni islamiste, provenienti in gran parte da Misurata. Già venerdì scorso, Hifter e i suoi uomini avevano orchestrato un’operazione contro le milizie islamiste a Bengasi, in quello definito dalle autorità centrali come un altro tentativo di golpe che ha fatto 70 morti. Personaggio controverso e dal passato oscuro, Hifter era un fedelissimo di Gheddafi prima di defezionare e fondare il Fronte Nazionale di Salvezza per la Libia. Il generale si sarebbe poi trasferito negli Stati Uniti, vivendo per anni in Virginia, a breve distanza dal quartier generale della CIA. Tornato in patria dopo l’assassinio di Gheddafi, Hifter era stato protagonista di un video circolato lo scorso mese di Febbraio, nel quale in sostanza annunciava un colpo di stato in Libia, senza però riuscire a dare seguito alle proprie minacce. Visti i suoi legami con la CIA, che aveva selezionato l’ex generale di Gheddafi per favorire la nascita di una forza pronta a rovesciare il regime, è dunque possibile che Hifter sia stato utilizzato da Washington – o da fazioni all’interno dell’apparato militare o dell’intelligence americano – per provare un colpo di mano nel paese nordafricano con l’obiettivo di riportare un minimo di ordine e infliggere un colpo alle formazioni islamiste o, quanto meno, di testare le capacità dello stesso Hifter all’interno del confuso panorama politico libico. Quel che appare certo, in ogni caso, è che il precipitare della situazione in Libia è la diretta e drammatica conseguenza dell’intervento “umanitario” occidentale del 2011, responsabile della totale destabilizzazione non solo di uno dei paesi più stabili e (relativamente) prosperi del continente ma anche dell’intera regione. Il dopo-Gheddafi in Libia è sfociato nello strapotere di una miriade di milizie armate violente, spesso di ispirazione fondamentalista quando non apertamente affiliate al terrorismo internazionale, sulle quali Washington, Parigi e Londra avevano contato per dare la spallata al regime. Una volta ultimate le operazioni militari, queste stesse milizie si sono rifiutate di deporre le armi e, approfittando del vuoto di potere venutosi a creare in un paese praticamente senza una società civile o un’opposizione organizzata, hanno creato proprie zone di influenza, talvolta collaborando con le forze armate ufficiali e quelle di polizia ma, soprattutto, dando vita a continui scontri interni per il controllo del territorio. Nelle regioni orientali, in varie occasioni le milizie si sono anche impadronite dei pozzi petroliferi sottraendoli al controllo del governo centrale, mentre qualche mese fa una di esse è stata addirittura protagonista del rapimento dell’ex primo ministro, Ali Zeidan, accusato di complicità con il raid americano che aveva portato alla cattura del leader di al-Qaeda, Anas al-Liby. Il succedersi degli eventi in Libia rappresenta così un motivo di grave imbarazzo per i governi che hanno apoggiato la cosiddetta “rivoluzione democratica” contro il regime di Gheddafi, nonostante i tentativi dei media ufficiali di occultare le implicazioni dell’impegno occidentale in questo paese. L’ambiguità dell’approccio dell’Occidente e, soprattutto, degli Stati Uniti al fondamentalismo islamico è apparsa infatti in tutta la sua evidenza proprio in Libia, così come i pericolosi effetti collaterali di un politica sconsiderata, ugualmente riscontrabili nella crisi in Siria.

Washington, in sostanza, ha appoggiato finanziariamente e militarmente formazioni estremiste in Libia per condurre la propria guerra contro Gheddafi, finendo poi per subire le conseguenze dell’inevitabile rafforzamento di questi stessi gruppi armati, con effetti sia sugli interessi americani – come dimostrò clamorosamente l’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore USA Christopher Stevens nel 2012 per mano di fondamentalisti sunniti – sia sulla stabilità di Tripoli e di altri paesi dell’Africa sub-sahariana, come il Mali o la stessa Nigeria. La Libia, infine, rappresenta da qualche tempo un autentico serbatoio di guerriglieri estremisti per il conflitto in corso in Siria, utilizzati più o meno tacitamente come forza d’urto dagli Stati Uniti e dai loro alleati che, perciò, sembrano qualcosa di più che semplici spettatori passivi di un flusso di armi e uomini a cui ufficialmente sostengono di opporsi. Ciò è risultato evidente, tra l’altro, da una rivelazione pubblicata a fine aprile dalla testata on-line The Daily Beast, secondo la quale da quasi un anno una base creata nel 2011 dalle Forze Speciali USA non lontana da Tripoli sarebbe finita nelle mani di gruppi armati affiliati ad al-Qaeda. I reparti scelti americani che da questa struttura avevano operato al fianco di gruppi fondamentalisti per abbattere il regime di Gheddafi ne hanno perso il controllo la scorsa estate dopo almeno due precedenti incursioni da parte dei jihadisti. I militanti islamici che ora la controllano, dopo avere beneficiato delle operazioni NATO in Libia, sono attivi nel reclutamento e invio di guerriglieri in Siria, dove condividono di fatto l’obiettivo immediato degli Stati Uniti nel paese mediorientale, vale a dire la rimozione del regime secolare di Bashar al-Assad.

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