2024 Comunicati  10 / 04 / 2024

Gaza, tra propaganda e realtà

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 34/24 del 10 aprile 2024, Sant’Ezechiele
 
Gaza, tra propaganda e realtà
 
Segnaliamo due articoli sulla guerra a Gaza: il primo, seppur del novembre scorso, ci sembra interessante per le sue osservazioni di carattere generale. Il secondo si riferisce invece alla stringente attualità, con la drammatica avventura di una suora della parrocchia latina di Gaza.
 
Guardare la guerra dall’altra parte
Questo ottobre di guerra mi ha colto ad Amman, la capitale giordana. Qui la guerra su Gaza va in onda quotidianamente. Minuto per minuto. Bombardamento per bombardamento. Così la vive l’opinione pubblica araba.

Mi è toccato in sorte di essere ad Amman in Giordania, durante quest’ultimo ottobre di guerra. Una sorte che ho accolto come una possibilità: guardare la guerra un po’ meno da lontano, e guardarla come la guarda l’intera regione, il Medio Oriente. Quale più essere la differenza, se di fronte a questa guerra non sei testimone, ma solo spettatore? La distanza accorciata? I duecento chilometri in linea d’aria che separano Amman dalla Striscia di Gaza?
Certo, la distanza dice molto. Quei duecento chilometri non significano solo vicinanza. Disegnano una terra in cui un pugno di chilometri significa una separazione continua, confini, check-point, passaporti diversi, un complesso meccanismo che mostra la follia del cosiddetto ordine di Westfalia vecchio di secoli, l’ordine degli Stati-nazione che ha segnato la nostra storia contemporanea.
La terra che sembra così simile, vista da Amman e da Gerusalemme, è ferita da segni di cemento che riscrivono la vita quotidiana e il significato della cittadinanza e dei diritti dei suoi abitanti. La differenza non è, però, solo nella distanza, nello spazio contenuto: è nella prospettiva attraverso la quale si guarda alla guerra. E nel caso più specifico, si guarda a Gaza e alla Cisgiordania. Metà della popolazione giordana è di origine palestinese, appartiene cioè a quel periodo della storia – mai dimenticato – dell’espulsione, della cacciata del 1948 e del 1967. I profughi di Gaza, la cacciata in corso dei palestinesi dalle piccole comunità attorno a Hebron e a Nablus da parte dei coloni radicali israeliani, sostenuti dall’esercito, incidono sull’anima di chi vive in Giordania.
Sono però le immagini a segnare una differenza abissale. Dal 7 ottobre, ad Amman e a Roma, sono andate in onda immagini diverse. Identiche quelle sul 7 ottobre, e sull’attacco terroristico compiuto da Hamas dentro Israele, lungo la fascia oltre i confini sigillati di Gaza. Le immagini crude dell’attacco sono passate su Al Jazeera, così come, dal giorno dopo, sono passate le immagini crude dei bombardamenti israeliani su Gaza. A Roma, le immagini quotidiane della strage in corso a Gaza non si vedono.
Qui sta la differenza. Ad Amman la guerra su Gaza è andata in onda quotidianamente. Minuto per minuto. Bombardamento per bombardamento. In una litania della sofferenza dei civili che ha inciso dentro l’anima. La differenza è nell’immane misura del dolore inflitto, su Gaza e su chi – astante – ha passato l’ottobre 2023 della guerra di fronte agli schermi accesi, giorno e notte, dentro i panifici e i barbieri, nei ristorantini e in farmacia, nelle case e negli uffici. Schermi di tivù e cellulari, «sintonizzati» su tutto ciò che i social – TikTok in primis – hanno trasmesso senza interruzione.
Lo iato, sempre più profondo, è tra un’opinione pubblica – giordana, egiziana, araba, e oltre la regione araba, più a oriente – che vede le immagini della guerra su Gaza, e un’altra opinione pubblica – quella genericamente occidentale – che non le vede, perché quelle immagini vengono trasmesse con il contagocce. Non vedere quelle immagini significa non poter comprendere la grandezza di ciò che sta succedendo, e dunque quali saranno le conseguenze. Nella regione, e oltre. Non mostrare quelle immagini significa non mostrare tutta la fotografia della tragedia, nella sua dimensione complessiva. E rendere incomprensibile ciò che succede giorno per giorno, e succederà nei prossimi mesi.
 
https://www.terrasanta.net/2023/11/guardare-la-guerra-dallaltra-parte/
 

Israele e Hamas: il racconto al Sir di suor Nabila, “come sono uscita da Gaza”
 
Suor Nabila Saleh è uscita da Gaza nei giorni scorsi a causa di precarie condizioni di salute. Di nazionalità egiziana, è rientrata al Cairo, dopo varie traversie che l’hanno portata anche a rischiare la vita nel tragitto dalla parrocchia latina, dove era sfollata dallo scoppio della guerra, al valico di Rafah. La suora, che in questi sei mesi ha lanciato numerosi appelli alla pace e al cessate il fuoco, racconta al Sir la sua esperienza.
 
“Siamo usciti dalla parrocchia alle 8 del mattino di martedì scorso. In quel momento ho pianto tanto. Io desideravo restare ma le mie condizioni di salute me lo hanno impedito. A Gaza non ci sono più ospedali in grado di fornire cure adeguate. Eravamo in 20, tutti cristiani sfollati nella parrocchia latina e in quella greco-ortodossa. Tra di noi c’erano alcune famiglie che avevano ottenuto un visto di ingresso per l’Australia e quattro studenti che studiano a Madaba, in Giordania”: inizia così il racconto di suor Nabila Saleh, la religiosa di origini egiziane, delle Suore del Rosario di Gerusalemme, che dopo sei mesi dallo scoppio della guerra tra Hamas e Israele, è stata costretta a lasciare la Striscia di Gaza nei giorni scorsi per fare rientro in Egitto dove è attesa da una serie di cure mediche. Ma il suo cuore e il suo pensiero sono rimasti con gli sfollati ancora dentro Gaza.
 
Situazione drammatica. Affida i suoi ricordi al Sir, con la voce rotta dall’emozione: “Una parte del nostro gruppo proveniva dalla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio e altri, come me, da quella cattolica della Sacra Famiglia. Abbiamo fatto un pezzo di strada in auto fino al Wadi Gaza, che separa la parte nord da quella sud della Striscia. Da lì in poi abbiamo cominciato a camminare lungo la strada che costeggia il mare per diverse ore, in direzione di Khan Younis, ma non è stato facile perché le vie erano interrotte e piene di macerie. Nel nostro tragitto – rivela la suora che in questi mesi ha lanciato continui appelli per un cessate il fuoco – abbiamo visto tanta gente vagare nella vana ricerca di aiuti. Nel nord di Gaza ne arrivano pochissimi e si fa grande fatica a reperire acqua e cibo. I prezzi degli alimenti come la farina sono decuplicati e nessuno o quasi può permettersi di fare acquisti. Nemmeno nei pochi mercati aperti. Tutti nel nord sperano e chiedono di far arrivare i convogli umanitari. La situazione è drammatica. Nella parrocchia latina si cerca di andare avanti con quel che si riesce a reperire e grazie a qualche aiuto esterno”.
 
“Non volevo morire in strada”. “Muoversi in queste condizioni non è stato facile” racconta suor Saleh impressionata dalla distruzione davanti ai suoi occhi. In questi sei mesi, infatti, uscire dalla parrocchia è stato difficilissimo e solo per bisogni estremi perché il rischio di venire colpiti era altissimo. Come è accaduto a diversi cristiani. Ora al rombo degli aerei israeliani e al sibilo dei razzi di Hamas, al fragore delle armi, “che ci hanno fatto trascorrere giorni e notti di terrore”, si affianca la vista delle macerie. “Dai resti dei palazzi abbattuti abbiamo notato molti cadaveri. L’aria era nauseabonda, irrespirabile, ovunque c’era odore di morte. Intorno a noi sentivamo sparare e avevamo paura di essere colpiti e di morire da un momento all’altro. In quegli istanti – confida la religiosa – ho cominciato a piangere. Avrei voluto tanto tornare indietro, in parrocchia. Non volevo morire in strada ma nella mia ‘casa’, in parrocchia, davanti l’altare. Ritornare verso nord non era possibile. Nel tragitto abbiamo superato i check point israeliani, sorvegliati anche da telecamere, passavamo i controlli divisi in gruppi di cinque persone. Non è stato facile. Qualcuno è rimasto indietro ma poi ci siamo di nuovo riuniti tutti”.
 
Da Khan Younis a Rafah, fino al Cairo. Prima di Khan Younis siamo riusciti a trovare un carretto trascinato da un somaro sul quale abbiamo caricato le nostre poche cose rimaste. Molte le abbiamo lasciate lungo la strada perché non si poteva camminare con tanto peso dietro. Siamo arrivati a Rafah nel pomeriggio ma il confine era chiuso. Intorno a Rafah abbiamo visto enormi distese di tende dove la povera gente vive ammassata con servizi insufficienti. La situazione igienico sanitaria è davvero pesante. In quel momento era urgente trovare un posto dove trascorrere la notte. Grazie all’amicizia di alcuni dei giovani che erano con noi con una famiglia musulmana del posto ci ha permesso di dormire sotto una tenda allestita in un piccolo cortile di una casa ancora in piedi, ad un’ora di distanza dal confine. Questa famiglia, molto gentile e premurosa, si è presa cura di noi, ci ha offerto dell’acqua e del cibo. Così abbiamo potuto riposare un po’. In quelle poche ore che siamo stati nel sud abbiamo notato che la situazione degli aiuti è leggermente migliore che al nord. I convogli umanitari, infatti, riescono ad arrivare nelle zone meridionali della Striscia, ma non oltre. La mattina alle ore 6 eravamo già in fila ai cancelli per entrare in Egitto. Ci sono volute 12 ore per passare la frontiera e altre 8 per arrivare al Cairo”.
 
Con il cuore a Gaza. “Il mio primo pensiero, guardando Gaza dall’Egitto, è andato alla piccola comunità cristiana che vive sfollata nelle due parrocchie, a tutta la popolazione che paga, soffrendo, una guerra che non vuole, alle vittime delle due parti, ai feriti, agli ostaggi. Il mio pensiero è andato alla nostra scuola del Rosario, la più grande della Striscia con i suoi circa 1300 studenti, che non esiste più perché è stata bombardata. E mi sono chiesta: chi potrà ricostruire Gaza? Quando questa terra potrà conoscere un po’ di pace? Cosa ne sarà di questa popolazione sfollata? I leader del mondo tacciono … Cosa accadrà in futuro? Noi non sappiamo nulla, conosciamo però la preoccupazione delle famiglie per i loro figli che non avranno scuole, ospedali, lavoro, un futuro. Tutto questo non farà altro che alimentare nuove tensioni e preparare nuovi conflitti. Chi può, chi riesce anche a pagare, cerca di uscire, di andare via in Australia, in America, in Europa, dove un futuro è possibile. Al mondo chiedo: quale sarà il futuro di Gaza?”

https://www.agensir.it/mondo/2024/04/08/israele-e-hamas-il-racconto-al-sir-di-suor-nabila-come-sono-uscita-da-gaza/