2012 Comunicati  15 / 02 / 2012

The Guardian: sevizie a bimbi palestinesi nelle carceri israeliane

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza

Comunicato n. 18/12 del 15 febbraio 2012, Ss. Faustino e Giovita

The Guardian: sevizie a bimbi palestinesi nelle carceri israeliane

Quei bambini legati mani e piedi ad una sedia.
Nelle carceri di Israele i piccoli palestinesi vengono rinchiusi e maltrattati: ne parla il Guardian in un reportage

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Ci sono foto, ci sono testimonianze e documenti. Ed anni di lavoro che rivelano uno scorcio probabilmente inatteso, un ritratto a tinte forti direttamente dalle prigioni dello stato di Israele, dove a subire trattamenti inaccettabili secondo tutte le associazioni non governative che si occupano della loro tutela sono i bambini. Bambini palestinesi accusati per reati relativamente non gravi, soprattutto in medio oriente, e resi oggetto di violenze al limite della barbarie, di pestaggi e di maltrattamenti, contro ogni procedura legale, privati di ogni diritto minimo peraltro riconosciuto dallo stesso stato di Israele.

CONDIZIONI TREMENDE – E’ un servizio esclusivo del Guardianad aver messo insieme testimonianze, documenti, rapporti e studi per realizzare un reportage andato online proprio ieri. Tutto, o quasi tutto, gira intorno alla prigione di Al Jalame, nel nord del paese con la stella di Davide. “Pavimento sporco, un bagno turco, nessuna finestra”, scrive Harriet Sherwood, corrispondente dalla striscia di Gaza, descrivendo la cella 36: “Il passaggio del cibo garantito da una piccola porticina è l’unica cosa che segna il tempo, dividendo il giorno dalla notte”. In queste prigioni sono tenuti i bambini che le forze di polizia e giudiziarie dello stato di Israele hanno preso in custodia, e hanno sbattuto in galera ben prima che qualsiasi accusa a loro carico venisse confermata. “La maggior parte di loro è accusata di aver tirato pietre ai soldati o ai coloni; alcuni, di aver tirato qualche bottiglia molotov; qualcun altro, è dentro con accuse più serie come di essere collegato ad organizzazioni militanti o di aver usato armi”. Per tutti, racconta il Guardian, la via d’uscita è una sola: “La camera degli interrogatori”, dove, “ammanettati mani e piedi ad una sedia”, ai bambini viene chiesto praticamente tutto ciò che sanno, compreso ciò che fanno “i propri vicini, i propri amichetti, i propri parenti”, quel che gli piace fare, quali siano le loro abitudini. Parliamo di molti, molti bambini arrestati ogni anno, “fra i 500 e i 700″, i più accusati di assalti con lanci di pietre. Ci sono testimonianze giurate, riporta il Guardian, di “almeno 426 minori detenuti nel sistema giudiziario israeliano”.

INSULTI E MINACCE – Trattati come pezze da piedi, quando va bene. “Arrestati di notte”, racconta il Guardian, “legati mani e piedi con corde di plastica, accecati, abusati verbalmente e fisicamente, minacciati”, trattati a male parole (“figlio di p*****, cane” sarebbero improperi particolarmente comuni), “trattenuti in isolamento”, senza che i genitori nulla sappiano del loro destino al momento dell’arresto, senza tutela legale e in strutture in prevalenza israeliane, “il che rende particolarmente difficile” qualsiasi ipotesi di visita o di contatto con le famiglie, palestinesi e dunque persone non gradite oltre i confini del loro contestato Stato. Come abbiamo detto, l’articolo del Guardian è una raccolta di una grande serie di documenti ufficiali elaborati da organizzazioni non governative che si occupano di studiare e tutelare i bambini palestinesi nei territori israeliani: sono realtà “bipartisan”, potremmo dire, nel senso che sia organizzazioni israeliane che palestinesi raccolgono dati, testimonianze e documenti utili a denunciare ed affrontare il problema: fra i documenti citati, c’è No Minor Matter, della “B’Tselem – The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories”, e le testimonianze raccolte dalla sezione palestinese di Defense for Children International: “Non stiamo dicendo che non ci sono colpe. Diciamo che i bambini hanno diritti”, dice il responsabile di DCI. “Indipendentemente dalle accuse a loro carico, non dovrebbero essere arrestati di notte in terribili raid, non dovrebbero essere legati e bendati per ore, dovrebbero essere informati del diritto di rimanere in silenzio e dovrebbe essere permessa la presenza di un genitore durante gli interrogatori”. Nella tabella del rapporto della B’Tselem, i numeri di questi arresti. (vedere la tabella al link in fondo all’articolo)

MOHAMMED – Il racconto della loro esperienza nelle prigioni di Al Jalame e Petah Tikva è particolarmente crudo nelle parole dei piccoli. Ad esempio, Mohammed viene da Tulkarm, città della striscia di Gaza. Lo scorso gennaio, all’età di 16 anni, i militari hanno fatto irruzione in casa sua intorno alle 2 del mattino: “Erano in quattro e mi hanno detto devi venire con noi, senza dirmi perché, senza dire niente a me o ai miei genitori”. Legato, accecato, secondo ciò che lui pensa sarebbe stato condotto in una delle colonie israeliane, dove è stato fatto inginocchiare per un ora in una strada asfaltata nel freddo della notte. Poi, è stato portato ad Al Jalame, struttura detentiva sulla strada che va da Nazareth ad Haifa. Test medico, e poi è stato sbattuto nella cella 36, dove ha passato 17 giorni in isolamento. “Stavo da solo, ero spaventato e avevo bisogno di parlare con qualcuno. Ero disperato, volevo qualcuno da incontrare, con cui parlare. Ero annoiato, così tanto che quando ho visto la polizia fuori dalla cella e ho visto la polizia che parlava in ebraico, io non parlo ebraico, ma annuivo ad ogni cosa dicessero. Ero disperato, volevo parlare con qualcuno”. Certo, non come è stato costretto a parlare, interrogato nella stanza, legato alla sedia: “Mi hanno minacciato, hanno detto che avrebbero arrestato la mia famiglia se non avessi confessato”. Di qualcosa che lui non aveva fatto, a suo dire, dato che si è sempre professato innocente. “Ho visto un avvocato non prima di 20 giorni dopo l’arresto”, racconta Mohammed.

E GLI ALTRI – Sameer Saher è di Azzer. Aveva 12 anni quando gli agenti di polizia sono entrati a casa sua, sempre di notte. “Un soldato mi ha preso per le gambe e mi ha portato alla finestra; mi ha detto: ‘Quasi quasi ti butto di sotto’, ricorda il ragazzo. “Mi hanno picchiato sulle gambe, sullo stomaco, sul volto”, racconta Sameer. Ezz ad-Deen Ali Qadi, diciassette anni quando è stato arrestato, in prigione stava lentamente impazzendo. “Mi ripetevo le domande degli interrogatori, chiedendomi”, racconta, “se avessero ragione. Inizi a sentire la pressione della cella, allora pensi alla tua famiglia. E ti senti come se perderai il futuro. Lo stress è enorme”, racconta; come se non bastasse, i secondini si prendono anche gioco dei ragazzi: “Ti chiedono se hai sete, portano l’acqua e se la beve il poliziotto”. Alla fine, i piccoli confessano: Mohammed ha confessato di essere affiliato ad un’organizzazione proibita, il che gli è costato oltre un mese di galera. Ezz ha confermato di aver tirato pietre e di aver “pianificato operazioni militari”, il che gli è costato sei mesi di libertà; “il Guardian ha documenti di altri cinque giovani detenuti in isolamento ad Al Jalame e Petah Tikva. Tutti hanno confessato dopo essere stati interrogati”. Il padre di Yahir è riuscito ad entrare nella cella dove il figlio era detenuto: non lo ha trovato molto in forma. “Ho visto i segni dell’elettroshock, erano visibili da dietro il vetro. Gli ho chiesto se lo avevano utilizzato su di lui, e ha annuito. Aveva paura che qualcuno lo stesse ascoltando”, ha detto Odwan.

FUORI CONTROLLO – Non ci sono solo racconti. “Il Guardian ha potuto visionare anche registrazioni degli interrogatori di due ragazzi, di 14 e 15 anni”. Esausti, “nessuno gli ha detto che potevano rimanere in silenzio, gli sono state rivolte in continuazione domande falsamente interrogative, come quali delle persone nominate li avevano convinti a tirare pietre”; li hanno picchiati, uno si era accasciato e gli hanno detto di svegliarsi, uno dei due ha detto “che quella mattina aveva un esame a scuola, e l’avrebbero bocciato se non l’avesse sostenuto”. In nessun caso era presente un legale. Nonostante queste prove, audiovisive oltre che documentali, le autorità israeliane interrogate dal Guardian non rispondono, smentiscono, spendono poche parole a commentare la vicenda, che, come riporta il Guardian, non solo dimostra evidenti violazioni della normativa internazionale (Convenzione internazionale per i diritti del fanciullo, Quarta convenzione di Ginevra per la protezione dei civili in tempo di guerra), ma anche del codice penale israeliano, che per i reati minorili in teoria è particolarmente garantista. Il rapporto di B’Tselem riporta i principi chiave dell’ordinamento israeliano per i detenuti minorenni: “Il carcere deve essere l’ultima risorsa, laddove non esistano alternative. Per i minori sotto i 14 anni, il carcere è vietato. (…) La carcerazione per gli infraquattordicenni rappresenta uno svantaggio sproporzionato a danno del minore. Incarcerare un minore vicino all’età adulta lo danneggia più di quanto danneggerebbe un adulto, cosicché il risultato è manifestamente indesiderabile, se non addirittura ingiustificato”; interpretazione della normativa, questa, fornita da Dorit Beinisch, già ministro della giustizia, attualmente capo della Corte Suprema Israeliana. Dunque, stando a queste rivelazioni, o qualcuno in Israele non rispetta le leggi dello Stato, o le forze di polizia sono fuori controllo. Oppure, entrambe le cose ad un tempo.

Fonte: Giornalettismo