San Francesco d’Assisi nella penna di Mons. Benigni (II parte)
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 77/15 del 5 ottobre 2015, San Placido
Dalla “Storia Sociale della Chiesa”, Vol. V, “La crisi medievale”, Vallardi 1933, pagg. 616-625.
I Francescani, di Mons. Umberto Benigni (seconda parte)
Sulla figura di Francesco e sull’inizio e sviluppo dell’opera sua i giudizi più diversi sono stati svolti, di secolo in secolo, attraverso documenti primitivi, non sempre chiari e non compresi nel loro spirito che ben tardi (come i celebri «Fioretti di San Francesco» tutt’altro che fonte pura da tendenziosità), seguiti da una farraginosa letteratura ove spesso lo scrittore fa opera settaria, nel senso generico della parola, sia il congregazionista che vuol fare di Francesco l’uomo accaparrato dalla sua congregazione di fronte alle consorelle, sia il tristo protestante razionalista Paolo Sabatier che del «Franciscus vir catholicus» volle fare un vago spiritualista, panteista, buddista occidentale. È vero che se allo Stimmatizzato han fatto questo, al suo crocifisso han fato ben peggio; ed anche in questo l’estatico della Verna segue la passione postuma del divino Maestro.
In realtà Francesco è il fondatore di un movimento di Penitenza, largo ed universale, per il monaco penitente, per il monaco missionario, per il prete secolare, per il laico; ce n’è per tutti, da Antonio di Padova a Luigi IX, da Chiara d’Assisi a Elisabetta d’Ungheria, da questi grandi ad una infinita schiera di frati, di monache, di terziari, oltre le sempre più numerose congregazioni che aspirano al suo nome.
Ecco perché il francescanesimo fu sin da principio la barriere che sorgeva, come per incanto, di fronte alla eresia ed alla demagogia che se ne mascherava, in ogni angolo d’Occidente. Ecco l’innumerevole sciamare di falangi apostoliche, attraverso città, villaggi e campagne, a seminare «fraternamente» la parola e l’esempio per ricondurre i sedotti dalle stravaganze pseudomistiche e dai pregiudizi e odi anticristiani ed antisociali, verso un ideale umile ed efficiente di vita pura e modesta, tranquilla e sopportante per amor di Dio.
Fortissima, benemeritissima fu, come presto vedremo, l’opera di Domenico e de’ suoi frati predicatori, specializzati presto nella lotta dottrinale ed inquisitoriale, dove furono sommi: ma dal punto di vista globale che ci occupa – la difesa contro l’assalto eversivo della società – il francescanesimo occupa il fronte della battaglia, e vi resta tutt’oggi, più d’altri, perché lo spirito francescano scese al più profondo dell’anima, dei bisogni e delle miserie di questa; onde arrivò ed arriva in quel sottosuolo spirituale che è sempre lo stesso, attraverso i secoli, le epoche, le loro crisi. La letteratura, sismografo delle cose invisibili, c’ha mostrato nel vescovo hugotiano Miriel la più artificiosa delle figurazioni letterarie, la più irreale; il cattolico Manzoni c’ha dato in padre Cristoforo ed in fra’ Galdinoi tipi eterni del buon francescano, sempre fra il popolo, e con la destra alzata verso i piccoli successori di Ezzelino, o con sulle labbra le pie storie del miracolo delle noci, delizia della piccola gente che non ha migliore letteratura spirituale del folklore cristiano.
La grande genialità si vede nella istituzione nuova del Terz’Ordine, tipo insuperato, con buona pace di tanti cavalieri e fanti delle organizzazioni all’americana. L’eresia demagogica e la tirannia dei signorotti feudali o dei priori comunali, fedeli a quel criterio che forgiò il celebre «semo prima venesiani e poi cristiani», non si aspettavano l’assalto in casa loro, col «frate» terziario e la «sorella» terziaria che potevano essere il suocero o il genero, il fratello o il figlio, la madre, la suocera, la moglie, la sorella, la nuora o la figlia del demagogo o del tirannello, che se li trovava a casa, in bottega, a tavola, a letto.
Certamente l’influenza del Terz’Ordine fu grandissima, e dovette avere il suo peso in ogni buono sforzo per la pace o difesa patria, per il meno inquieto vivere sociale. Senza le fantastiche esagerazioni de «il segreto di Giovanna d’Arco» del Pèladan, si può ben opinare che i terziari francesi erano per la pia e patriottica Pulzella, e così per la patria minacciata; mentre dietro la politica e l’armata inglese, si arrovellava l’odio bieco contro la casa di Francia e, come a meno contro la Francia, dei fuoriusciti del templarismo settario.
Grave iattura fu lo scisma e i mille dissensi che ne seguirono, all’indomani e dopo, in seno alla grande famiglia francescana.
Oltre il doloroso ma fugace episodio del traviato Frate Elia da Cortona, la lotta del fanatismo «spirituale», pauperistico, fu deleteria. Senza dubbio sarebbe stato fatale che tutto l’Ordine francescano si fosse incanalato nel regime dei frati conventuali, rispettabilissimo ed opportunissimo ramo della famiglia, adatto per tutta una categoria di persone; ma quando mai vi fu, serio e concreto un tale pericolo? gravissimo e concretissimo vi fu invece il pericolo del fanatismo presuntuoso e pervicace, anche quando non arrivò allo scisma ed all’eresia proibente ai Papi di toccare alla lettera della Regola francescana, che valeva perché e in quanto era stata approvata dai Papi e non perché fosse un Vangelo dettato da Dio. Guai se il francescanesimo si fosse lasciato trasportare da quella deformazione intellettuale e morale che poi fu chiamata a proposito di altri, il «solipsismo», quello dei «soli ipsi», dei «soli essi».
Questa piaga non è estinta come spirito, e lo si vede in deplorevoli eccessi che s’infiltrano in polemiche bizantine sulla orgine ed evoluzione minoritica; ma, grazie a Dio ed alla pontificia sapienza, il malanno è reso inefficace per il pubblico danno.
Ma quanto male ha fatto cogli esaltati del medioevo agonizzante! Il farisaismo (e non si nega la buona fede di alcuni: questione estranea) il farisaismo pauperistico impedì tanto bene, fattibile allora dal puro francescanesimo, che è a domandarsi se non fosse in ciò una ragione dell’indebolito successo posteriore della contro-preriforma minoritica. ll tentativo dell’eremitismo – cioè, in fondo, dell’individualismo ascetico predominante – dei clareniti (Eremiti di Celestino) fu tollerato, dopo violente peripezie, dalla longanimità dei Papi, che può lasciar vivere indefinitamente enti sorpassati: il tempo è longanime perché sicuro che verrà matura la morte degli enti non vitali. Così, sopravvenuta colla controriforma la necessità di una revisione di valori per vari istituti ecclesiastici, mentre prosperava la nuova forma, perfettamente inquadrata, della comunità cappuccina, il riformatore Pio V soppresse i clareniti ai quali già, alla vigilia della tempesta, Giulio II aveva imposto di aggregarsi o alla famiglia osservantina (francescani comuni) od alla conventuale: misura che poi apparve insufficiente.
Tutte queste esperienze più o meno patologiche sulla grande vita francescana ne hanno determinato la legge biologica della sanità e della forza: fratellanza totalitaria, comunitativa e disciplinata; spirito di piena rinuncia al mondo, nella sorridente umiltà e cordialità; varia ramificazione che dà all’albero francescano il valore di una selva, senza gli sterpi.
Tale fu e restò l’alberò che Francesco piantò umile piantatore di un umile virgulto che fremeva, nel saturo ambiente e momento storico, di essere albero. Già lo era al Capitolo delle Stuoie, presente Francesco; e l’albero ingigantì a vista d’occhio e divenne l’albero evangelico che «fa gran rami, e li uccelli dell’aria all’ombra di esso possono dimorare» (Marc.IV,32).