Il ricordo di Shireen Abu Akleh
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 46/24 del 14 maggio 2024, San Bonifacio
Il ricordo di Shireen Abu Akleh
Ricordiamo il secondo anniversario della morte di Shireen Abu Akleh (Gerusalemme, 3 aprile 1971 – Jenin, 11 maggio 2022), cattolica palestinese, giornalista molto conosciuta e apprezzata nel Vicino Oriente, uccisa da un cecchino israeliano nel corso di un servizio televisivo a Jenin.
La sua tragica morte e i violenti attacchi della polizia al corteo funebre, hanno anticipato l’ostilità dell’esercito israeliano contro i cristiani nel corso della guerra di Gaza, come il bombardamento della chiesa dei greci scismatici (18 morti, tra cui diversi bambini), l’uccisione di tre donne della parrocchia latina colpite da cecchini, il boicottaggio alla consegna di generi alimentari e medicine alle due parrocchie (latina e greca).
Nel dramma di Gaza, manca la ‘voce libera’ di Shireen Abu Akleh
A due anni dall’uccisione della giornalista cristiana palestinese, il ricordo ad AsiaNews del fratello Anton. Il conflitto nella Striscia uno “shock” che lei avrebbe documentato per “adempiere alla missione di giornalista”. La chiusura di al-Jazeera attacco alla stampa e segno della “doppia morale” di Israele. La battaglia della famiglia per la verità sulla sua morte.
Milano (AsiaNews) – La guerra a Gaza, le atrocità che si stanno consumando ai danni della popolazione civile nella Striscia nella guerra lanciata da Israele contro Hamas in seguito all’attacco del 7 ottobre scorso “avrebbero scioccato anche Shireen”, che pure negli anni ha testimoniato molte violenze. È quanto racconta ad AsiaNews Anton Abu Akleh, fratello della giornalista cristiana palestinese, a due anni dall’uccisione per mano di un soldato dell’esercito israeliano, centrata da un proiettile la mattina dell’11 maggio 2022 durante un’operazione a Jenin, in Cisgiordania. La cronista, apprezzata per i suoi reportage non solo all’interno della comunità cristiana, al momento della morte era impegnata a “coprire un raid” dei militari in un sobborgo della cittadina. “Era un pilastro della famiglia – aggiunge – e la sua morte è stata per tutti noi familiari un dolore profondo”.
“Le immagini cui stiamo assistendo a Gaza – afferma il fratello, commentando l’escalation di sangue e morti – sarebbero state un trauma anche per lei. Nella sua carriera di giornalista ha raccontato per 25 anni l’occupazione della Palestina, ma quanto sta accadendo va oltre ogni immaginazione, è un qualcosa di impensabile”. Ciononostante, sottolinea, “continuerebbe con dedizione il proprio lavoro. Oggi quello che mi manca è ascoltare un suo reportage, sentire dalla sua voce il racconto del dramma che si sta consumando, avrei voluto sentirne il racconto, che cosa avrebbe detto. Certo, non sarebbe rimasta insensibile di fronte a questa tragedia che rappresenta uno shock collettivo ma, al tempo stesso, avrebbe adempiuto alla missione di giornalista”.
La sua morte di Shireen ha sollevato la condanna unanime di diverse personalità politiche e istituzionali internazionali, oltre ad attivisti ed esponenti della comunità palestinese. Il governo israeliano e l’autorità palestinese si sono rimpallate le responsabilità, ma dalle prime ricostruzioni ha subito preso corpo l’ipotesi di un proiettile sparato – con tutta probabilità in maniera deliberata – da un membro dei reparti speciali israeliani impegnati nell’operazione di pattugliamento. Il canale satellitare al-Jazeera per il quale lavorava dal 1997 ha parlato di proiettile “al volto” esploso “a sangue freddo” dall’esercito israeliano.
“La sua uccisione – racconta al telefono da Washington Anton Abu Akleh – è un promemoria, a maggior ragione in questo momento, del bisogno di giustizia per la quale ci battiamo anche noi come famiglia”. Una giustizia che non riguarda solo le circostanze che hanno portato alla morte: “Se questa giustizia l’avessimo ottenuta prima – spiega – non ci sarebbero state tutte queste uccisioni, le vittime fra giornalisti e civili nella Striscia, molte vite sarebbero state risparmiate”. “Dobbiamo contrastare – prosegue – questa doppia morale che permette a Israele di uccidere, senza rispondere delle proprie azioni. Come famiglia siamo oggi negli Stati Uniti a incontrare senatori e deputati per proseguire la nostra battaglia per la verità”, alla ricerca di un sostegno “per una cittadina americana che, purtroppo, ad oggi non abbiamo avuto. La stessa amministrazione Usa finora non ci ha aiutato”.
La cronista cristiana aveva una lunga carriera alle spalle, con 20 anni di copertura equilibrata e professionale del conflitto palestinese. Era nata nel 1971 a Gerusalemme est e ha conseguito una laurea in giornalismo e media presso l’università di Yarmouk, in Giordania. La famiglia è originaria di Betlemme, ma Shireen – che aveva doppia cittadinanza palestinese e americana – è nata e cresciuta a Gerusalemme dove ha completato gli studi secondari presso la Rosary Sisters School di Beit Hanina. Dopo il diploma si era iscritta in un primo momento ad architettura, per poi laurearsi in giornalismo. Conclusi il percorso di studi era rientrata in Palestina e ha lavorato in realtà diverse fra le quali l’Unrwa, Voice of Palestine Radio, Amman Satellite Channel, Miftah Foundation, Radio Monte Carlo. Per 25 anni è stata “voce della Palestina” per al-Jazeera la cui sede in Israele è stata chiusa in modo arbitrario nei giorni scorsi dal governo del premier Benjamin Netanyahu.
“Hanno bloccato la sede di corrispondenza – ricorda il fratello di Shireen – a distanza di 48 ore dalla Giornata mondiale per la libertà di stampa. Questo non è solo un attacco ad al-Jazeera, ma alla libertà di informazione in generale. Già prima della morte di Shireen avevano bombardato l’edificio che ospitava l’emittente, poi la sua uccisione, oggi la chiusura della sede. Vogliono silenziare ogni voce libera in Palestina, in Cisgiordania, a Gaza, ma questa doppia morale deve finire”.
La morte ha rappresentato un momento di profondo shock per la comunità cristiana di Terra Santa e pure le sue esequie sono state caratterizzate da profonda tensione, con le forze di sicurezza israeliane che hanno attaccato il St. Joseph Hospital colpendo un luogo di “accoglienza”. In questi due anni la famiglia ha compiuto numerosi sforzi per ottenere giustizia, appellandosi – invano – alla Casa Bianca e presentando denuncia formale alla Corte penale internazionale (Icc) all’Aja, in Olanda. Inoltre, per ricordare la “missione” di giornalista impegnata nella ricerca della verità, i parenti hanno istituito “un museo e borse di studio” per sostenere “nuove voci di libertà” in Palestina. “Come famiglia – conclude Anton Abu Akleh – vogliamo sostenere i futuri giornalisti, perché questa è la risposta migliore al tentativo di silenziare l’informazione e per combattere l’occupazione, mantenendo al contempo viva la voce, la memoria e l’eredità di Shireen”.