2024 Comunicati  15 / 02 / 2024

Goffredo Mameli e i “fratelli” di loggia

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 17/24 del 15 febbraio 2024, SS. Faustino e Giovita

Goffredo Mameli e i “fratelli” di loggia

Pubblichiamo una vecchia recensione di don Ugo Carandino al libro “Fratelli d’Italia. La vera storia dell’inno di Mameli” tratta dal n. 55 della rivista Sodalitium (dicembre 2002), con una conclusione aggiornata.

Fratelli d’Italia

Ci sono voluti ben tre autori, Tarquinio Maiorino, Giuseppe Marchetta Tricamo e Piero Giordana, per scrivere un libro di 140 pagine dedicato alla figura di Goffredo Mameli e al suo celebre inno. 

Gli Autori, fin dal I capitolo del libro, non nascondono la loro profonda simpatia per “il poeta con la sciabola” (pag. 14) e attribuiscono a Carlo Azeglio Ciampi il merito di aver rimesso in valore l’opera di Mameli,  elogiando la “crociata di Ciampi a favore dell’inno-simbolo del nostro paese”(pag. 12). Lasciando il crociato Ciampi, scopriamo quindi la figura del “poeta con la sciabola”. 

Prima di esaminare la vita di Mameli, gli Autori dedicano il II capitolo, “L’inno-simbolo del Risorgimento”, a situare l’inno di Mameli nel contesto delle vicende risorgimentali. A pag. 17 esaltano la rapidità con cui si diffusero, tra i partigiani dell’unificazione, le strofe dell’inno composto nel 1847 e musicato, successivamente, da Michele Novaro. Sulle ali dell’entusiasmo, gli Autori ipotizzano doti quasi profetiche di Mameli: “l’ultimo periodo [della vita di Mameli] vi appare talmente ricco di avvenimenti da far pensare che Mameli presagisse la scarsità del tempo che il destino gli aveva messo a disposizione e che cercasse di bruciare le tappe” (pag. 19). Con indignazione gli Autori riportano poi le critiche di qualche denigratore “che lo giudicò da «fisarmonica», un po’ frivolo e paesano” (pag. 20). Per gli Autori “il vero gradimento (…) venne dalla gente della strada che cantava a squarciagola Fratelli d’Italia” (pag. 21), anche se il nome esatto dell’inno è Il canto degli italiani. “Era venuto il momento in cui la storia d’Italia non si faceva più con le norme giuridiche ma semmai con la poesia” (idem). Per suffragare questa tesi, riportano una frase particolarmente ispirata di Giuseppe Garibaldi: “una buona parte di questa Italia si deve ai poeti” (ibidem). 

Nelle pagine che seguono, vengono citati i diversi canti del periodo risorgimentale, tra cui gli eloquenti versi dell’inno garibaldino E a Roma, Roma: “E a Roma a Roma/ ci sta un papa/ che di soprannome/ si chiama Pio nono/ lo butteremo giù dal trono/ dei papi a Roma/ non ne vogliamo più” (pag. 44). 

Il lettore che desidera conoscere la vita di Mameli deve pazientare ancora un po’, in quanto il III capitolo è dedicato alla storia dell’inno in questione, dall’unità d’Italia sino ai giorni nostri. Gli Autori ricordano che l’opera di Mameli venne scelta come inno nazionale dopo il cambio istituzionale del 1946; l’inno, a differenza della bandiera tricolore, non è citato nella Costituzione, in quanto fu adottato con una decisione di carattere provvisorio che perdura tuttora (divenne inno ufficiale con la legge n. 181 del 4.12.2017).

Il IV capitolo è finalmente consacrato al “poeta-combattente” (pag. 76). Per la verità, in virtù della prima funzione, il Nostro cercò di evitare la seconda, almeno in occasione della chiamata di leva: “Secondo una legge che favoriva le classi ricche, era possibile farsi «sostituire» pagando una somma di danaro, e infatti il suo posto nel 16° reggimento fanteria della brigata Savona era stato preso da un certo Fedele Vitale Scrivante” (pag. 85). 

Infatti il “poeta con la sciabola” apparteneva a un’altolocata famiglia genovese. Gotifredo (questo era il suo vero nome) nacque a Genova, il 5 settembre 1827, da Giorgio Mameli, alto ufficiale della Marina Sarda e dalla nobildonna Adelaide Zoagli, appartenente a una famiglia aristocratica che aveva dato alla Repubblica di Genova tre dogi e due consoli. 

Grazie ai suoi illustri natali, Goffredo riesce dunque a evitare la chiamata alla leva per assicurare ai patrioti le sue produzioni poetiche. La sua prima opera, L’alba, è del 1846, e subito dopo, nell’ode Roma mostra i sentimenti di profonda avversione che nutriva per il Papato: “Ove del mondo i Cesari/ ebbero un dì l’impero/ e i sacerdoti tennero/ schiavo l’uman pensiero…” (pag. 81). 

“Come poeta, aveva decisamente la mano facile” assicurano gli Autori (pag. 81), indicando un lungo elenco di inni, odi, poesie, sonetti composti da Mameli in giovane età. Oltre all’amore per la causa nazionale, il cuore di Mameli conosce l’amore di alcune fanciulle: da qui la stesura di versi che potrebbero rafforzare certi giudizi sulle sue qualità letterarie: “La tua statura è simile alla palma/ e le tue mammelle a dei grappoli d’uva…” (pag. 81). Per giustificare l’ardita composizione, gli Autori si affrettano a riferire di una confidenza fatta dal Nostro a un amico: “Temo la caduta nel sentimentale e nel platonico, i miei eternamente acerrimi nemici” (pag. 82). 

Nel 1847 Mameli entra a far parte di un club mazziniano, dove inizia la sua amicizia con Nino Bixio. Nel marzo 1848, dopo i fatti di Milano, gli Autori ci informano che per Mameli “giunse il momento di deporre la penna e impugnare la spada” (pag. 84), per mettersi a fare il “combattente in proprio” (pag. 85) agli ordini dell’amico Bixio; però queste bande rivoluzionarie erano mal viste dallo Stato Maggiore dell’Esercito Sardo (pag. 85). 

Dopo l’umiliante sconfitta di Custoza, Mameli ritorna a Genova e le meraviglie continuano, poiché “il poeta-patriota parve nondimeno possedere il dono dell’ubiquità. Era in movimento perpetuo” (pag. 87). In quel periodo avviene “un incontro entusiasmante, quello con Giuseppe Garibaldi” (pag. 87): tra i due eroi nasce un legane di “ammirazione, fiducia, complicità, amicizia” (pag. 88). 

Intanto a Roma gli eventi precipitano, la residenza papale del Quirinale è presa d’assalto, il Papa Pio IX (appartenente alla categoria di coloro che, secondo Mameli, “tennero schiavo l’uman pensiero”) è costretto a trasferirsi a Gaeta. È l’inizio della Repubblica Romana, periodo in cui si registrarono ripetuti atti sacrileghi nelle chiese dell’Urbe e numerose violenze contro il clero. Il fanatismo mazziniano prende il potere e in questo frangente “Mameli si precipitò a Roma” (pag. 89). 

Intanto, sottolineano gli Autori, “dal suo rifugio borbonico Pio IX preparava la riscossa e la vendetta” (sic!) (pag. 90). La traballante Repubblica Romana sta per cadere, e Mameli, nella primavera del 1849, partecipa a degli scontri nei dintorni di Roma. E qui si consuma, almeno in parte, la… vendetta papalina: “perse il cavallo e una notte gli rubarono il mantello” (pag. 91). Sembrerebbe un episodio marginale, in realtà il fisico del poeta-combattente ne soffre: “perché le notte umide trascorse all’addiaccio gli minarono il fisico e lo resero febbricitante” (pag. 91). 

Bixio, in una lettera riportata dagli Autori, parla di un suo incontro con Mameli il quale, benché sofferente, intende proseguire il suo combattimento contro il Papato. 

Il 3 giugno partecipa a uno scontro dove è ferito a morte. La ferita fatale non ha risvolti particolarmente eroici, in quanto “Mameli fu raggiunto per sbaglio da una pallottola amica; secondo un’altra [versione], a colpirlo fu invece la baionetta di uno dei suoi, un bersagliere poco pratico di quell’arma” (pag. 91). Sulle prime la ferita non sembra preoccupante; viene trasportato all’ospedale della Trinità dei Pellegrini (è da ricordare che la Roma di Pio IX possedeva un ospedale ogni 9.000 abitanti, mentre la Londra antipapista uno ogni 40.000), dove però le condizioni peggiorano e “Mazzini andava a trovarlo più volte al giorno” (pag. 93).

Sul letto di morte compone i suoi ultimi versi, tristi come il volto del suo Maestro: “Come l’astro morente arde e balena/ ferve l’anima mia rinvigorita/ nel bacio della morte./ Addio, per sempre addio,/ sogni d’amor di gloria./ Addio mio suol natio./ Addio diletta all’anima/ del giovane cantor” (pag. 92), con riferimento a un amore non corrisposto con Adele, una giovane veneziana conosciuta a Roma. Il 19 giugno si procede all’amputazione di una gamba: ma l’intervento non è sufficiente per fermare la cancrena e Goffredo entra in agonia. Anche la Repubblica Romana è ormai moribonda: il 3 luglio Mazzini e i suoi discepoli scappano dalla città, che le truppe francesi riconsegnano al legittimo sovrano. 

Mameli giace in ospedale abbandonato dai suoi, assistito solamente da Adele, che non gli nega l’estremo aiuto. Gli Autori non riferiscono se i Padri Barnabiti, che assicuravano l’assistenza nell’ospedale, riuscirono a confessare Mameli, abiurare l’appartenenza alla massoneria e riconciliarlo con Dio. Il Nostro muore il 6 luglio, a ventidue anni non ancora compiuti: nello stesso giorno a Torino, viene pubblicato un decreto che vieta l’ingresso nel Regno di Sardegna ai volontari della Repubblica Romana e in particolare a quattro personaggi: Mazzini, Garibaldi, Bixio e Mameli (pag. 95). 

Il corpo di Mameli viene sepolto provvisoriamente in una chiesa vicina all’ospedale; nel 1872 è riesumato e trasportato al Verano. Nel 1940 il governo italiano dell’epoca, che intendeva esaltare gli eroi del Risorgimento, lo fa traslare al Vittoriano e l’anno seguente, nel 1941, all’ossario del Gianicolo, dove riposa accanto ad altri protagonisti della Repubblica Romana. 

Il libro rappresenta un’occasione mancata per contribuire alla rilettura del Risorgimento. Invece di un approfondimento storico serio, scevro da infatuazioni ideologiche, gli Autori hanno optato per un’impostazione di stampo agiografico, che ricalca le mediocri produzioni letterarie post-unitarie. Da sottolineare il silenzio assoluto sul ruolo della Massoneria nelle vicende risorgimentali e nella vita di Mameli, poichè anche il Nostro, come già accennato, era iscritto alla setta, e questo spiega la sua avversione nei confronti del Cattolicesimo.

Stefano Bisi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, nel novembre 2017, quando “Il canto degli italiani” divenne l’inno ufficiale della repubblica italiana, lo ha affermato esplicitamente: “Ora ci sentiamo ancor di più Fratelli d’Italia e canteremo l’inno orgogliosamente, come abbiamo sempre fatto, durante le nostre tornate rituali e le manifestazioni pubbliche”. “Per noi, Fratelli d’Italia, al di là delle questioni burocratiche, è stato sempre l’inno che abbiamo portato impresso nel cuore e nella mente, perché in esso c’è la storia d’Italia e del Risorgimento che sfociò nell’Unita’. Scritto dal massone Goffredo Mameli e musicato dal fratello Michele Novaro, esso fa vibrare da sempre l’animo dei liberi muratori e dei cittadini italiani”.

Del resto, come ricordava il Timone, (rivista che non può essere accusata di estremismo), il testo dell’inno di Mameli “è di chiara ispirazione massonica. I “fratelli” cui si rivolge perché insorgano sono quelli delle logge. La nazione è quasi deificata. (…) Si comprende bene come a Goffredo Mameli siano dedicate, ancora oggi, molte logge massoniche” (il Timone, Anno IV – Settembre/Ottobre 2002, n. 21, pag. 21). 

Come sacerdote non posso che sperare in un estremo ravvedimento di Mameli sul letto di morte, per riscattare una vita spesa male anche per i pessimi maestri che volle scegliersi, quei nefasti settari (artefici di nefaste opere) per i quali il “siam pronti alla morte” senza la Fede e la grazia dei sacramenti fa presagire un’eternità sventurata.

don Ugo Carandino

MAMELI, TARQUINO MAIORINO, GIUSEPPE MARCHETTI TRICAMO, PIERO GIORDANA, Fratelli d’Italia. La vera storia dell’inno di Mameli, Mondadori, Milano 2001, pagg. 142, € 13,43 (Sodalitium, n. 55, dicembre 2002).

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Una corona di fiori della Loggia Mameli 169 all’ossario garibaldino di Roma dove si trovano i resti di Mameli.