2012 Comunicati  13 / 11 / 2012

Dal Rosmini a san Tommaso: una conversione

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 96/12 del 13 novembre 2012, San Diego

Da Rosmini a San Tommaso

Nel 1887 il Sant’Uffizio condannava 40 proposizioni tratte da opere di Antonio Rosmini, mentre nel 2007 Benedetto XVI “beatificava” lo stesso Rosmini. Poiché l’asino si lega dove vuole il padrone, nel mondo del cosiddetto “tradizionalismo cattolico” alcune riviste e case editrici si distinguono nella venerazione di Rosmini. L’articolo che segnaliamo parla di una conversione in senso contrario: dal pensiero eterodosso di Rosmini alla sana dottrina di San Tommaso d’Aquino. Si tratta di uno scritto pubblicato da La Civiltà Cattolica e segnalato dal sito Progetto Barruel .

Dal Rosmini a san Tommaso: una conversione

La Civiltà Cattolica, anno XXXVIII, Serie XIII, vol. VIII (fasc. 899, 25 novembre 1887) Roma, 1887 (pagg. 573-582). Rivista della stampa italiana – La mia conversione dal Rosmini a san Tommaso. Rimembranze di studii filosofici di D. Giacomo Sichirollo, professore nel Seminario di Rovigo. Padova, tipografia del Seminario, 1887. In 16, di pagg. 380. Prezzo L. 3.

«Fu già un tempo… in cui io era rosminiano, poi non ci fui più. In questi due, dirò, momenti lunghi della mia vita, lessi e rilessi le opere del Rosmini… Nè questo è stato un volta faccia: perchè io non mi son voltato brusco brusco…; ma adagio anche troppo, e con la coscienza del dovere, che abbiamo tutti, di non impugnare la verità conosciuta (1).» Così l’Autore ci fa sapere per quale ragione abbia abbandonato le dottrine del Rosmini abbracciando quelle di san Tommaso. « Che se, soggiunge, taluno volesse conoscere perchè queste cose le ho volute pubblicare adesso e non prima; sappia pure che fu perchè adesso specialmente ho sentito il bisogno di mostrare in qualche modo anch’io, come quelli che combattono il sistema del Rosmini non sieno della peggior razza, d’uomini, che vivono al mondo e con cui l’imbrancano certi rosminiani; e che la verità l’amano e la studiano anche loro (2).» La lettura di questo lavoro riuscirà dilettevole, edificante, istruttiva. Il diletto proviene da quel non poco di ameno che hanno alcuni fatti raccontati dall’Autore con certa scienza, perchè accaduti a lui, e con una certa semplicità. L’edificazione poi si avrà in veggendo il sincero studio con che l’Autore ritornò su’ proprii passi in cerca della verità; la lealtà nel dire a sè stesso, non che il coraggio di far noto e palese eziandio colla stampa a tutti, d’aver errato.
L’istruzione finalmente s’avrà per molti capi. Lasciamo stare per ora quella che ne deriva dal leggere la confutazione che l’Autore fa delle dottrine del Rosmini, chi legge queste pagine viene a conoscere il modo con cui si studiavan da alcuni rosminiani, e Dio voglia che non lo si faccia anche al presente, cose di somma rilevanza. Studiare una questione vuol dire applicarsi ad essa coll’animo scevro da passione e desideroso di ricercare, apprendere e ritenere quel che di vero vi si ritrovi. Quindi l’attenta considerazione del pro e del contra, la lenta riflessione sulle ragioni dell’uno e dell’altro, ed il metterle a rincontro, e ponderarne la forza che, messe così a fronte a fronte, o perdono o conservano.
Il nostro Autore succhiò l’amore al Rosmini da un suo amico nell’anno 1855, il quale frequentava le lezioni di filosofia date da un professore rosminiano. Del Rosmini, come del maestro di color che sanno, e delle sue teoriche si parlava ogni dì durante una lunga passeggiata: «si disputava… con un fervore che s’altri ci avesse ascoltati ci avrebbe creduto filosofi fatti; e sì che di filosofia il mio compagno non ne sapeva di più degli scartafacci che studiava e d’un compendietto del Corte; io nulla di più di quello che per riflesso mi stampava in mente l’efficace parlare dell’amico (3).» Intanto egli procurava d’avere le opere del Rosmini, queste svolgeva nocturna manu, diurna; di queste parlava, faceva sunti, che poi spiegava ad altri «mettendo alla prova voce e braccia» «coi nervi» atteggiati «ad una sforzata tenzione; dovendo allora in me, dice, non avvezzo a simili studii, operare la fantasia e la memoria più che la «virtù intellettiva e ragionativa (4).» Intanto l’amore pel Rosmini progredendo, si convertiva in entusiasmo e non sapresti quale appassionato interesse. «Mi ricordo che di que’ tempi un giovane sacerdote portava la passione del nome rosminiano tanto avanti, che egli mi dicea, con tutta persuasione come sarebbero presto caduti, o quasi, tutti gli altri ordini religiosi, da quello in fuori del Rosmini;… quantunque mi ripetesse pur sempre che tutti per sè sono santi, avendoli riconosciuti per tali la Chiesa. Anzi (cosa che parrà poco credibile, ma che è pur vera) ho sentito altri a dire, con la più ferma persuasione, che la Chiesa avrebbe quando che sia riconosciuta la dottrina del Rosmini siccome sola conforme ai bisogni dei tempi, canonizzandola quale filosofia cattolica per eccellenza (5).» Aggiungi a ciò la spiegazione del dimittantur (dato dalla sacra Congregazione) messa fuori dal giornale lucchese Araldo della Pragmalogia cattolica n. 10, ed è la seguente: «che il suddetto dimittantur è la massima approvazione che possa aversi su questa terra [6].»
Non mancò Monsignor Benzon, suo Vescovo, di farlo avvisato per mezzo di «una grave persona» che egli desiderava «d’indirizzare piuttosto gli studii de’ suoi chierici a san Tommaso, che credea dal Rosmini toto coelo lontano.» «Pure io non sapea pensare falsa la filosofia del Rosmini, e con giovanile e segreto orgoglio mi veniva persuadendo che in queste cose i superiori c’entrano tanto o quanto; e dicea fra me stesso: –– amicus Plato, sed magis amica veritas ––. Adagio che in certe età e in certi casi, com’era il mio, si può convertire in questa men solenne ma pur veridica forma: « –– amicus Plato sed magis amicus ego mihi ––; giacchè di frequente alla propria opinione si dà il nome di convincimento, e più ancora di verità per antonomasia (7).» Chi si poneva con siffatta disposizione d’animo allo studio di cose filosofiche o discussioni metafisiche si ritrovava nella impossibilità di giudicare rettamente e di scorgere la verità, la quale non si ravvisa da coloro che hanno la mente preoccupata e come predeterminata ad una parte piuttosto che ad un’altra, a guisa di colui che veggendo per un mezzo di colore giallo non potrà mai dire di vedere un puro azzurro, o altro quale che sia colore. Quindi natural cosa era il pigliar per buono tutto quello che in Rosmini si ritrova. «Prima ch’io leggessi, la seconda volta, le opere del Rosmini; m’era bello vedere a piè di pagina una citazione o un passo di san Tommaso, onde usciva bene spesso a dire: bene; anche san Tommaso dice così, ed era contento come una pasqua (8).» Quindi natural cosa era il sentirsi «ripetere alle orecchie: se condanneranno il Rosmini condanneran san Tommaso. Per verità io finquì non avea visto delle opere di san Tommaso neppure una pagina in fonte; soltanto conoscea i luoghi, che riguardavano la filosofia, recati dal Rosmini… (9).»
Studio per tanto senza critica. Studio, vuolsi aggiungere, di parte. Il fin qui detto lo dimostra chiaramente; soggiungiamo soltanto in conferma quello che l’autore attesta, cioè che mentre in sul principio andava in cerca di libri del Rosmini, ne ebbe «da uno, che, credo, per far piacere ad altri s’era comprati que’ libri; le cui carte le ho tagliate io tutte, o quasi tutte. E di questo fatto mi cessò ogni meraviglia quando dopo qualche anno venni a conoscere parecchi galantuomini che avean comprato tutte le opere del Rosmini e del Pestalozza fino a’ più piccoli opuscoli, nè c’era foglio in essi che fosse tagliato… Il tempo portava così: bisognava per una certa classe di persone essere rosminiani almeno in libreria per credersi o esser creduti allora qualche cosa (10).» Ma più strano parrà quanto segue: «E già la mia passione per la filosofia rosminiana era giunta allo stadio più acuto, era diventata, a così spiegarmi, una passione mistica, onde le teoriche del Roveretano mi pareano raggiare da ogni libro di filosofia e di pietà, ch’avess’io letto. E lessi in questo tempo il De consolatione Philosophiae del Boezio, e in margine notava qui e là: –– idea innata –– lume innato dell’essere –– essere ideale –– e così via. Poi lessi o rilessi l’Itinerarium mentis in Deum di san Bonaventura, e lì nuotava in un oceano di luce rosminiana. Il Teotimo di san Francesco di Sales, in quel che discorre filosoficamente, pareami chiarito e rivelato dalla filosofia del Rosmini: ed ho capito che questa estasi filosofica non era soltanto mia (11).» Il ch. Sichirollo ha avuto il coraggio e la lealtà di confessare di sè coteste cose, nelle quali chi sa quanti riconosceranno la propria storia, il proprio stato, le proprie disposizioni onninamente contrarie alla ricerca della verità. Ma veggiamo i motivi dai quali a poco a poco l’animo nobile e franco del nostro autore fu indotto ad uscirne.
Il primo motivo così ci viene da lui descritto. «Ma tutta questa devozione, bisogna ch’il confessi, non mi parea sincera; cioè, mi spiego, di buona lega…. Non potea far di meno di chiedermi spesso: perchè il mio e molti altri dottissimi Vescovi, con insieme teologi di prima cattedra, non fanno troppo buona accoglienza al sistema del Rosmini ? Era questo un quesito di cui la mia coscienza esigea una soluzione (12).» Cercava egli di darsi una risposta dicendo: nel sistema rosminiano trattarsi di cosa puramente filosofica; Vescovi e teologi, come tali, non potere far vacillare la sua persuasione (13). «Ma poi mi si mostrava, prosegue, chiaramente il gratuito e falso, che c’era in questo discorrere. E non s’è forse voluto, io meco ragionava, dalle scuole rosminiane, cominciando dallo stesso suo autore, non s’è voluto far della nuova filosofia l’unica chiave a disserrare tante riposte verità delle scienze sacre? E dichiarare con questo sistema non già solo quelle cose, a cui s’ascende per la via della ragione, ma eziandio quelle della fede?» E qui prosegue che si giungeva perfino a «far dipendere l’agevolezza del guadagnare gli infedeli alla fede dall’uso, nella dottrina e nella polemica cattolica, del sistema rosminiano (14).» E va innanzi proponendo quelle considerazioni con cui si tolse di capo il predetto sofisma. Nè qui s’arrestava; ma stringendo sempre più, osservava che «l’introdurre il sistema rosminiano in Teologia «dovea recare un tramutamento nel linguaggio di essa, e quindi una folla d’equivoci su tutti i punti di quell’immenso dottrinale, esposto con forme, cha da’ maestri in Teologia d’un sei o sette secoli furono sempre intese e spiegate quasi ad un modo, e di gran lunga diverso da quello, onde le vorrebbe spiegate il Rosmini. Ora potrebbero mai i Pastori della Chiesa lasciare senz’altro libero il seguire o meno le teoriche del Rosmini in questa via? (15).» È questa un’osservazione giustissima ed è al tempo stesso una poderosa ragione. È un argomento estrinseco, è vero; ma tale che quanto più si svolge tanto appare più convincente. E non sappiamo noi in qual modo un Teologo, che s’attenesse al Rosmini, dovrebbe parlare e quali formole adoperare trattando del principio di moralità e di obbligazione, della unione dell’anima col corpo, della transustanziazione, della presenza reale del corpo e sangue di Gesù Cristo sotto le specie eucaristiche, del peccato originale e della sua propagazione in tutti e singoli gli individui dell’uman genere, della giustificazione, eccetera? In tutti cotesti punti ed altri molti il parlare dei Santi Padri, dei Teologi, delle Bolle de’ Papi, de’ Concilii, vuoi provinciali vuoi ecumenici, sarebbe messo in non cale e sostituito da formole, a dir poco, molto equivoche (16).
Un secondo motivo di abbandonare le teoriche rosminiane, il nostro Autore trovava nella «non molta modestia» del Rosmini in rileggendo: I principii della scienza morale. Ne interrogò un suo amico, dal quale udissi rispondere: i genii sentire la loro missione e rivelarla con parole magnanime più che superbe (17). E qui ritornando sul motivo precedente: «Io già, dice, non potea passare che questo apostolato d’una filosofia, che dovea pur esser propedeutica alle teologiche discipline, non solo il Rosmini così sicuramente lo riconosce in sè, ma lo predicasse lui stesso così solennemente al mondo: e intanto diventavano le sue teoriche sempre più sospette a non piccola parte di Vescovi e di teologi insigni (18).»
Da ciò l’Autore «mi vidi, dice, indotto a ripensare i principii fondamentali della filosofia del Rosmini, per provare se, coll’animo sgombrato da preconcetti, trovassi que’ principii ancora efficaci a tenermi persuaso della loro verità come prima (19).»
Riprese pertanto con animo scevro da passione la lettura delle opere del Roveretano. E così venne scorgendo in lui «un pensiero meno prodigioso o certo un linguaggio men preciso (20).» Conobbe l’abbaglio preso dal Rosmini nella questione sull’origine dell’idee; sull’astrazione o modo di formar nella mente l’idea universale, di fare un giudizio ecc. (21). S’avvide della bruttissima dottrina che, stando al naturale significato delle parole, si ricava dal seguente brano del Rosmini Antropologia n. 819. Venendo il principio sensitivo toccato, per così dire, da questo oggetto (l’ente universale), cioè rendendosi l’essere intuibile al detto principio (cioè sensitivo); con questo solo toccamento, con questa unione di sè il principio prima solo senziente, ora anco intuente, si solleva a più alto stato, cangia natura, rendesi intellettivo, sussistente, immortale, in una parola partecipa delle sublimi qualità dell’oggetto col quale (il principio sensitivo) si trova oggi mai indivisibilmente unito (22). Scorse l’estremo pericolo dell’ontologismo o dell’intuito immediato di Dio e del panteismo (23). Un giorno s’intratteneva con un suo amico sulla definizione data dal Rosmini dell’idea. Udì rispondersi «che queste non eran cose da criticare in un gran filosofo; che con ciò si verrebbe a dire, che il Rosmini ignorasse una delle più elementari leggi della definizione. Ma dunque, soggiungeva io: le regole della logica saran fatte per noi soli, poveri uomini, che camminiamo terra terra non per le aquile del pensiero? (24)» Continuando innanzi s’imbattè di bel nuovo in quello che vien detto del sentimento fondamentale. Inutili, confessa, tutti gli sforzi fatti per avvertire in me cotesto sentimento! (25) Ma leggeva che per ciò si richiedea anche un po’ di buona volontà (26). «Se è così, della buona volontà io ne ho quanta si vuole…» Si mette quindi ripetutamente alla prova, raddoppia l’attenzione, tenta ogni via, tutto inutile (27). Solo scorge gratuite asserzioni, manifeste assurdità (28). Da queste considerazioni venne ad esaminare il modo con cui il Rosmini spiega «l’unione dell’anima razionale col corpo» ed è il seguente: la percezione immanente che ha il principio razionale del sentimento animale (29). Ecco in che consiste l’unione sostanziale dell’anima col corpo! Sfidiamo chiunque a trovarci, trattandosi di cosa che tocca il domma, alcun che di somigliante ne’ SS. Padri, ne’ Teologi, ne’ Concilii, nelle Bolle de’ sommi Pontefici! Il Sichirollo, dopo avere arrecato diversi altri testi del Rosmini, prosegue: «Io davvero non seppi pienamente capacitarmi, anche quand’era rosminianissimo, della necessità di questa primitiva percezione a spiegare l’unione del corpo con l’anima razionale; dato che l’intuizione dell’essere con la sua creativa manifestazione attragga ed elevi l’uomo animale ad essere intellettivo (30).» Dopo questa giustissima osservazione prosegue l’autore confutando tutta la farraggine di errori, che si riferiscono a questo punto dell’unione dell’anima col corpo; tra quali errori non ultimo nè meno pericoloso è quello contenuto nella definizione stessa dell’anima umana (31).
Nel resto (32) del suo lavoro il Prof. Sichirollo discorre dell’uso che il Rosmini fa nelle sue opere dei testi de’ SS. Padri, degli scolastici, e soprattutto di san Tommaso. Cosiffatti testi sono dal Rosmini «interpretati con un’ermeneutica tutta ad uso e consumo del suo sistema; ermeneutica che si riduce a dire: Il mio sistema è vero: dunque gli antichi non possono essere intesi in modo che al mio sistema contrasti (33).» E prosegue dimostrando co’ fatti alla mano che il Rosmini –– manca alle leggi dell’interpretazione (34) riproducendo le parole de’ Padri cambiate e postillate a suo talento (35), non vedendo i testi nella lor fonte (36), rigettando con gran pericolo la definizione dell’uomo data dai Padri e dalla scuola (37), anzi peggio in qualche modo accusando la medesima scuola d’aver accettato una definizione che pecca di sensismo e materialismo (38). E quanto a san Tommaso, il Sichirollo dimostra come il Rosmini non dovea averlo letto quando scrisse ed architettò il suo sistema (39); come poscia leggendolo l’interpreti falsamente (40); attribuendo all’intelletto agente il percepire (41), confondendo il reale col sussistente, il substare coll’esser principio d’individuazione eccetera (42), e (se a Dio piaccia) cercando di mettere san Tommaso in contradizione con sè medesimo. «Ma pur troppo il Rosmini vede che da san Tommaso –– due personaggi si trovano rappresentati… cioè il filosofo della scuola ed il pensatore originale ––; e que’ due personaggi –– prendono talora, chi ben osserva, egli dice, un’attitudine di opposizione tra loro ––: anzi da ciò avviene che in san Tommaso si trovi secondo lui –– una apparenza di contradizione, se non vogliam dire una contradizione effettiva ––: e ciò s’intende –– non fa meraviglia –– al Roveretano (Antropologia, n. 785, not.) (43).» Lasciamo al lettore di vedere nel lavoro del ch. Professore co’ propri occhi la discussione quivi fatta delle dottrine di S. Tommaso, degli Scolastici e di quelle del Rosmini. Noi giudichiamo questo lavoro dotto ed erudito, scritto con animo sincero, sottile perspicacia, logica robusta e serrata. Lo crediamo inoltre non solo opportuno assai, sì eziandio utilissimo per i non pochi forse, i quali, o nella loro intima persuasione non si sentono sicuri delle teoriche del Roveretano, ovvero non hanno l’animo di abbandonarle. Il coraggio franco e leale del ch. Sichirollo servirà loro di esempio.

NOTE:

1 – Pagg. 6-7.
2 – Pag. 8.
3 – Pagg. 14-15.
4 – Pagg. 18-19.
5 – Pag. 16.
6 – Pag. 17.
7 – Pagg. 21-22.
8 – Pagg. 165.
9 – Pag. 35.
10 – Pag. 15-16.
11 – Pag. 24-25.
12 – Pag. 25.
13 – Pag. 25-26.
14 – Pag. 26.
15 – Pag. 31-32.
16 – Vedi quello che intorno a cotesti punti dovette scrivere il P. Liberatore nel Periodico: L’Accademia romana di S. Tommaso d’Aquino, Vol. IV, fasc. II.
17 – Pag. 32-33.
18 – Pag. 34.
19 – Pag. 37.
20 – Pag. 43.
21 – Pag. 45-80.
22 – Pag. 80-82.
23 – Pag. 87, 93, 106, 107, 109.
24 – Pag. 115.
25 – Pag. 117.
26 – Pag. 118.
27 – Pag. 120-123.
28 – Pag. 123-128
29 – Pag. 128.
30 – Pag. 130.
31 – Pag. 131-157.
32 – Pag. 140, 276, 280.
33 – Pag. 160-368.
34 – Pag. 160.
35 – Pag. 166-186.
36 – Pag. 177-187.
37 – Pag. 184.
38 – Pag. 189.
39 – Pag. 191.
40 – Pag. 203.
41 – Pag. 220, 310, 319.
42 – Pag. 245.
43 – Pag. 281-300.

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