2013 Comunicati  03 / 12 / 2013

Gerusalemme Est: dilaga la giudaizzazione

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 100/13 del 2 dicembre 2013, Santa Bibiana

Gerusalemme Est: dilaga la giudaizzazione

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(…) )n Terra Santa, a Gerusalemme in particolare, dove continua il processo di giudaizzazione, come anche la costruzione di agglomerati, dobbiamo segnalare con dolore che la nostra catastrofica situazione non preoccupa più né la comunità internazionale … La gente, avendo perso la propria fiducia in queste promesse, sogna di emigrare all’estero, per scappare ad una situazione che non può più sopportare. Più rimorsi nel caso di vendita di abitazioni, di proprietà, ereditate dai nostri antenati, un mezzo per assicurare il processo di emigrazione, fuggendo dal paese verso altri orizzonti. L’Oriente arabo, privo dei cristiani, non è l’Oriente che noi conosciamo, che noi amiamo.(…) (Patriaca latino di Gerusalemme)
Federici Blog

Il progetto di un nuovo parco suscita proteste a Gerusalemme Est
di Emma Mancini
(Gerusalemme) – I quartieri palestinesi di Issawiya e At-Tur rischiano di perdere terre agricole a favore del nuovo progetto del Comune di Gerusalemme: il Parco nazionale ebraico lungo le pendici del Monte Scopus, a Nord-Est della Città Santa. Il via libera al progetto – che il quotidiano israeliano Haaretz ha definito lo strumento per impedire la naturale espansione delle comunità arabe e non diretto a tutelare l’ambiente – giunge insieme al piano di costruzione di altre 1.500 nuove unità abitative nella colonia di Ramat Shlomo, nella stessa area.
Una politica quella del governo israeliano, che con una mano cancella i progetti di costruzione di 20 mila case per coloni in Cisgiordania per favorire il negoziato di pace con la controparte palestinese, e con l’altra approva nuove controverse misure urbanistiche a Gerusalemme. Lo stesso ministero dell’Ambiente si è detto contrario alla creazione del parco: il ministro Amir Peretz ha chiesto di riesaminare il progetto e coinvolgere le comunità palestinesi di At-Tur e Issawiya nella pianificazione.
Il timore è che il Parco nazionale ebraico indebolisca ulteriormente il processo di pace in corso, già fragile: a più riprese l’Autorità Palestinese ha posto come condizione al dialogo il congelamento dell’espansione coloniale, richiesta ribadita dal segretario di Stato statunitense John Kerry.
I più preoccupati restano, però, gli abitanti di At-Tur e Issawiya, dove i servizi pubblici scarseggiano e le confische di terre proseguono senza sosta. Mohammed Abu Al Homos, membro del Follow Up Committee di Issawiya quantifica le perdite subite dal villaggio negli ultimi decenni: «Prima del 1967 e dell’annessione di Gerusalemme Est allo Stato di Israele, il nostro villaggio si estendeva su 12.500 dunam di terre (12,5 chilometri quadrati – ndr). Oggi, 45 anni dopo, ne restano 1.300. Per il nuovo parco il Comune ha previsto la confisca di 450 dunam appartenenti ad Issawiya e altri 360 ad At-Tur. Ci hanno chiuso in un ghetto: all’ingresso di Issawiya la polizia (israeliana – ndr) pone spesso check-point volanti, impedendo a chiunque di entrare ed uscire o sottoponendoci a controlli continui, a cui spesso segue l’arresto».
Camminando per le strette vie di Issawiya – chiusa tra una base militare, l’ospedale Hadassah, l’Università ebraica, la colonia israeliana di French Hill e il muro di separazione dalla Cisgiordania – gli effetti sulla vita quotidiana della popolazione sono chiari. Le strade larghe e illuminate, le rotonde stradali e le aiuole che caratterizzano il campus universitario e i quartieri israeliani a pochi metri di distanza, qua scompaiono: al loro posto, case demolite, vicoli angusti, pochi marciapiedi e l’assenza di servizi, come raccolta dei rifiuti e mezzi di trasporto pubblici.
Ra’ed Taha Abu Rial, membro del Comitato di monitoraggio di Issawiya, creato sei anni fa per sostenere la comunità palestinese, è da tempo impegnato in atti di resistenza alla costruzione del parco nazionale: «Ci sono manifestazioni e scontri con le forze di polizia israeliane ogni settimana – ci spiega Ra’ed – .Alle proteste partecipano anche attivisti israeliani che sostengono la nostra lotta anche dal punto di vista legale. Stiamo cercando di incontrare anche il ministro dell’Ambiente Peretz e i membri arabi del parlamento israeliano. Abbiamo saputo del progetto di realizzazione del parco dai media israeliani e abbiamo subito promosso una petizione all’Alta Corte perché il Comune ci consegnasse tutti i documenti tradotti in arabo, così da capire cosa stava accadendo. Ma qualche mese fa la Corte ha rifiutato la richiesta e allora ci siamo tradotti da soli tutti i fascicoli».
L’area minacciata di confisca è per lo più agricola, piantata a grano, fagioli e lenticchie: «La zona interessata è già stata in passato oggetto di espropriazione per la costruzione della colonia di Ma’ale Adumim e della strada di collegamento tra l’insediamento e Gerusalemme. Hanno confiscato quasi 12 mila dunam (1.200 ettari) di terreni. Molti residenti di Issawiya si sono visti dividere le terre di loro proprietà in due parti, senza ricevere in cambio alcun rimborso. Anche oggi, con il progetto del Parco nazionale ebraico, il Comune di Gerusalemme non ci ha offerto alcun tipo di risarcimento, affermando che si tratta di una confisca per la tutela dell’ambiente e quindi per il bene dell’intera comunità cittadina».
«L’obiettivo – continua Ra’ed – è quello di impedirci di espandere il villaggio, sempre più densamente popolato: necessitiamo di nuovi spazi, ma siamo chiusi tra colonie e basi militari israeliane. Mancano le scuole, le cliniche, i centri culturali, i parchi gioco e terreni per costruire nuove abitazioni».
Ma Issawiya non si arrende: tutte le famiglie del quartiere hanno un rappresentante all’interno del Comitato popolare e hanno assunto due avvocati, Mohammed Dahle e Mohannad Jbra, per seguire la battaglia legale contro il Comune. «Tutti nel villaggio prendono parte alla lotta – ci spiega Rabab Mustafa Al Safadi, la responsabile del Centro comunitario di Issawiya –.Se cedessimo, il nostro quartiere smetterebbe di esistere. Per questo siamo disposti a pagare un prezzo alto: sono tanti i giovani arrestati dalla polizia israeliana durante le manifestazioni di protesta».
«Non abbiamo mai ricevuto comunicazioni ufficiali da parte delle autorità israeliane – continua Rabab – Abbiamo capito che qualcosa stava accadendo quando abbiamo visto iniziare i lavori e quando la stampa ha cominciato a parlarne. Allo stesso tempo, sono giunti i primi ordini di demolizione di alcune strutture agricole di proprietà dei residenti: alla mia famiglia confischeranno 70 dunam di terre per la costruzione del parco. Non ci hanno offerto rimborsi, ma se anche dovessero farlo, nessuno accetterebbe denaro in cambio della propria terra: non esistono quasi più appezzamenti agricoli ad Issawiya, li abbiamo persi praticamente tutti. Una contraddizione in termini: dicono di costruire il parco per tutelare l’ambiente e poi distruggono terre agricole».
«Siamo molto preoccupati. Non sappiamo quale sarà il nostro futuro. Se continueranno a prenderci le terre, il villaggio sarà destinato a scomparire: molti residenti saranno costretti ad andarsene perché non c’è più spazio per contenere la naturale crescita della popolazione. Lo si vede anche dai matrimoni: sono sempre di più i giovani che si sposano tardi perché non hanno un posto dove costruirsi una casa».
L’obiettivo israeliano, secondo gli attivisti coinvolti nella battaglia legale contro il nuovo parco, è chiaro: usare il parco per unire definitivamente Gerusalemme all’insediamento di Ma’ale Adumim, spezzando ogni tipo di collegamento tra la Città Santa e la Cisgiordania. Sarebbe così impedita la continuità territoriale di un eventuale futuro Stato di Palestina.
«Attraverso il parco nazionale – riprende Abu Al Homos – intendono creare un collegamento diretto tra la Città Vecchia e il progetto E1, corridoio di colonie tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim. Ciò si tradurrebbe nella morte di Issawiya, soprattutto dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale. Con la nuova ondata di confische prevista, i contadini perderanno le poche terre che gli restano e i residenti perderanno sia opportunità di lavoro (andando ad aumentare ancora di più il già elevato tasso di disoccupazione) sia spazio per ingrandire il villaggio, che necessita di scuole e cliniche: sono sempre di più i bambini costretti a frequentare scuole lontano da Issawiya per la mancanza di classi».
Proprio per questa ragione, Issawiya si era organizzata da sé e con l’aiuto dell’associazione Bimkom, organizzazione non governativa di architetti e ingegneri israeliani, aveva lavorato ad un piano regolatore per lo sviluppo del quartiere: «Dal 2004 al 2010 abbiamo disegnato una mappa del villaggio, in particolare della zona Sud, quella che è ora obbiettivo del Comune di Gerusalemme – ci spiega Darwish Darwish, mukhtar del villaggio (una sorta di sindaco eletto dalla comunità) –. Abbiamo presentato il piano al sindaco e al comitato di pianificazione, ma nel 2010 il Comune ha rifiutato il progetto proprio perché sulla stessa area sarebbe stato costruito il parco nazionale. Così, hanno distrutto le possibilità di ridare dignità alla comunità che voleva utilizzare l’area per nuove scuole, cliniche, centri culturali».
Eppure Issawiya prosegue nella sua battaglia contro un destino che appare segnato: i 17mila palestinesi residenti vogliono restare nelle proprie terre.

 

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