Diario dell’ambasciatore Usa a Costantinopoli negli anni del genocidio armeno
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 31/25 del 24 aprile 2025, San Fedele di Sigmaringa
Diario dell’ambasciatore Usa a Costantinopoli negli anni del genocidio armeno
Le deportazioni si susseguirono durante tutta la primavera e l’estate del 1915. Di tutte le grandi città solo Costantinopoli, Smirne e Aleppo vennero risparmiate, mentre tutti gli altri centri abitati dove viveva anche una sola famiglia armena divennero teatro di indicibili tragedie. Praticamente nessun armeno, indipendentemente dalla ricchezza, dal livello culturale o dalla classe sociale, scampò al provvedimento. In alcuni villaggi venne affisso un avviso che ordinava alla popolazione armena di presentarsi in un luogo pubblico a una data e ora prefissata, con un giorno o due di preavviso; in altri casi l’ordine veniva gridato a gran voce da un messo che percorreva a piedi le vie. In altri casi ancora non veniva dato il minimo avvertimento. I gendarmi comparivano davanti alle case abitate dagli armeni e ordinavano ai residenti di seguirli. Catturavano le donne impegnate nelle faccende domestiche senza nemmeno dare il tempo di cambiarsi. La polizia piombava sugli sventurati come l’eruzione del Vesuvio su Pompei; le donne venivano portate via dalle vasche da bagno, i piccoli venivano strappati dal letto, il pane veniva lasciato a cuocere nei formi, il pranzo familiare abbandonato a metà, i bambini portati via dall’aula scolastica lasciando il compito sul banco e gli uomini costretti ad abbandonare l’aratro nei campi e le bestie sulle pendici dei monti. Le donne che avevano appena partorito venivano obbligate a lasciare il letto e a unirsi alla folla atterrita con in braccio i loro bimbi addormentati. Uno scialle, una coperta, un po’ di cibo e pochi oggetti raccolti in tutta fretta erano tutti gli averi che riuscivano a portare con sé. Alle loro domande disperate: «Dove ci state portando?», i gendarmi rispondevano con aria di sdegno: «Verso l’interno».
Ai profughi venivano a volte concesse alcune ore e, in casi eccezionali, perfino alcuni giorni per liquidare i beni propri e della famiglia. Il procedimento però costituiva una rapina vera e propria. […] Le autorità turche informavano gli armeni che la deportazione era solo temporanea, che intendevano farli rientrare a guerra finita e che pertanto non era loro consentito vendere le proprie case. Ma non appena i profughi avevano lasciato il villaggio, le autorità assegnavano i locali lasciati liberi a dei mohacir musulmani, 2 migranti da altre regioni della Turchia. Con la stessa logica i loro oggetti di valore – denaro, anelli, orologi e gioielli – venivano consegnati alle stazioni di polizia, in teoria per esservi custoditi fino al loro ritorno, mentre in realtà venivano spartiti fra i turchi. Rapine, queste, che però turbavano assai poco i profughi, che vedevano svolgersi sotto i loro occhi scene ben più terribili e angosciose. Lo sterminio dei maschi non conosceva soste. I sopravvissuti alle persecuzioni che ho appena descritto venivano adesso eliminati fisicamente. Alla partenza delle carovane divenne prassi comune separare gli uomini giovani dalle loro famiglie, legarli a gruppi di quattro, condurli in luoghi appartati per poi finirli a colpi di fucile. Le pubbliche impiccagioni erano un evento quotidiano, l’unico reato essendo quello di essere di nazionalità armena. I gendarmi dimostravano una soddisfazione particolare nell’eliminare le persone istruite o autorevoli. Non v’era giorno che non ricevessi dai consoli americani e dai missionari rapporti che riferivano queste atrocità, i cui dettagli non riuscirò mai a dimenticare.
Ad Ankara tutti i maschi armeni di età variabile fra i quindici e i settant’anni vennero arrestati, legati a gruppi di quattro e avviati sulla strada che porta a Kaiseri. Dopo circa sei ore di cammino, giunti in una valle isolata, vennero assaliti da una turba di contadini turchi armati di bastoni, martelli, asce, falci, zeppe e seghe. La morte provocata da questi strumenti, assai più che terribile di quella ottenuta con pistole e fucili, era anche più economica, come dicevano vantandosene i turchi, perché non comportava alcuno spreco di pallottole e polvere da sparo. Con questi metodi venne sterminata l’intera popolazione di Ankara, compresi i ricchi e i notabili: i loro cadaveri orrendamente mutilati vennero abbandonati nella valle e lasciati in pasto agli animali selvaggi. Dopo aver portato a termine questo sterminio, i contadini e i gendarmi si erano radunati nelle osterie del luogo, raccontando le loro imprese e facendo a gara chi aveva ucciso il maggior numero di giaur. A Trebisonda gli uomini validi vennero caricati su delle imbarcazioni e spediti nel Mar Nero; i gendarmi li seguivano sui loro navigli sparando sugli uomini e gettando in acqua i loro cadaveri.
Quando finalmente la carovana riceveva l’ordine di partire, comprendeva solo donne, vecchi e bambini. Quelli che avrebbero potuto proteggerli dal destino che li attendeva erano stati tutti eliminati. Alla partenza della carovana non era insolito che il prefetto della città augurasse un ironico «buon viaggio». Alle donne veniva a volte offerto di diventare musulmane. Le poche che accettavano non vedevano però la conclusione delle loro miserie. Le convertite dovevano consegnare i loro bambini a dei cosiddetti «orfanatrofi musulmani», che ne avrebbero fatto dei devoti seguaci del Profeta. Quanto a loro, avrebbero dovuto dimostrare la sincerità della loro fede abbandonando i loro consorti cristiani e sposando un musulmano. Ma se nessuno si faceva avanti per sposarle, le neoconvertite venivano deportate a dispetto delle loro dichiarazioni di fedeltà all’Islam.
Da Henry Morgenthau, Diario 1913-1916: le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli negli anni del genocidio degli Armeni Milano, Guerini e Associati 2010, pp. 221-223.