2015 Comunicati  03 / 10 / 2015

San Francesco d’Assisi nella penna di Mons. Benigni (I parte)

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 76/15 del 3 ottobre 2015, Santa Teresa del Bambin Gesù

Dalla “Storia Sociale della Chiesa”, Vol. V, “La crisi medievale”, Vallardi 1933, pagg. 616-625.

I Francescani, di Mons. Umberto Benigni (prima parte)

giotto_francesco_particR439«Un uomo ed un ambiente»: questo tema è stato largamente trattato per molti personaggi; ma per nessuno esso s’impone come per S. Francesco. La sua strapotente figura nell’umiltà del «Minore», è veramente la fulgida condensazione di tutto un ambiente, di un doppio ambiente: il locale propriamente detto cioè il paesaggio, e quello del tempo, l’ora volgente, il momento storico.
Francesco è cosi intenso nella sua umanità prostrata e nella sua umanità assorgente, nel Poverello e nel Serafico, che egli é l’umanità del suo tempo in un concentramento supremo cui si presta l’ Umbria mite nei suoi oliveti, austera nelle sue selve d’elce e di cerro. Va subito notato come ambiente locale, che la cosiddetta Umbria consta di un agglomerato fra l’Umbria vera al sud­est del Tevere (dialetto del lu) e quella inserita all’altra sponda nord-ovest che è in realtà l’Etruria meridionale (dialetto d’il). Ebbene quest’ultima non ha dato mai fondatori di notevoli istituti religiosi che pur nacquero nell’Etruria autonoma, la Toscana, con i già menzionati ordini religiosi fondati da senesi e da fiorentini.
Invece l’Umbria propriamente detta che ha la frontiera settentrionale con Assisi, Foligno, Spoleto, Norcia si gloria di avere generato Benedetto e Francesco, due giganti del tipo il più differente. E così fu per le care e gloriose sante, da Scolastica di Norcia a Chiara d’Assisi, cofondatrici dei due immensi istituti, le benedettine e le francescane, oltre Rita da Cascia, Angela di Foligno, Chiara di Montefalco … Due stelle affiorano, non entrano nell’Umbria etrusca: Margherita di Cortona che è toscana, Rosa di Viterbo che è laziale.
L’Umbria etrusca ebbe (lo abbiamo testé veduto) una grande iniziativa che poteva svolgersi magnificamente nel campo ortodosso: le compagnie popolari di penitenza; ma subito esse mostrarono di non essere nate collo spirito che brillava a pochi chilometri da Perugia, ad Assisi: i flagellanti furono un flagello più per le spalle della Chiesa che per le loro.
Come si potrebbe negare che Francesco se inquadri a perfezione nel suo paesaggio umbro, nel profumo agreste delle sue valli e delle sue colline, tutte popolate di monasteri e di romitaggi, di cappelle e di «maestà» come là chiamano le edicole di immagini sacre lungo le vie?

Al disopra del Tevere, Perugia, stretta tra Firenze e Roma, guardava torva al di là del fiume sacro, verso Assisi testa di ponte del ghibellinismo umbro che s’appoggiava su Foligno, e poi guardava in su verso il lago Trasimeno, su cui Cortona era l’Assisi ed Arezzo era la Foligno del nord. Là non si covava che la guerra. Un giorno, Perugia, precorrendo i tempi nostri, assale, senza dichiarazione di guerra, Foligno, e la smantella. Per fortuna della città fulginate la Ginevra d’allora era il Papa che, capo guelfo, obbligò i suoi guelfi rubesti di Perugia a rifare a loro spese le mura demolite; ed i folignati, a scorno di essa, posero il grifo perugino con la testa in giù sulla facciata del loro duomo, ove sta ancora a fare il pollo in vendita. Un altro giorno, una banda di aretini scende verso il lago perugino, acchiappa alcuni giovani sudditi perugini e li impicca con al collo, per dileggio, una collana di lasche (specie di sardine del lago) perché i perugini ne vanno ghiotti e son chiamati mangialasche. I Priori dell’Augusta Turrena si adunano, e giudicano che si poteva aver pazienza per l’impiccagione (ne impiccavano tanti, essi!), ma che l’insulto delle lasche doveva essere lavato nel sangue; e posero l’assedio attorno ad Arezzo. Gli aretini videro che a cadere sotto un assalto perugino, sarebbe stato il massacro e la distruzione; e la mattina avanti l’assalto, il sole dorò i gonfaloni fiorentini alzati sulle mura d’Arezzo, davanti all’oste sitibonda di sangue da que’ disperati ghibellini i quali, guelfi per guelfi, preferivano la tracotanza del Giaggiolo alla ferocia del Grifo: così cadde la libertà comunalista ed impiccaiuola della città di Guido e di Petrarca; e così Perugia, come non aveva «avuto» Foligno, non «ebbe» Arezzo.
È qui precisato un fatto tipico che rientra nella nostra prospettiva. Il fiero sogno della «Dominante» dell’alta Umbri fiammeggiò sulla celata del grande capitano di Perugia, Braccio Fortebraccio da Montone: «Braccio Valente, vince ogni gente»! cantavano i suoi. Ed egli, che doveva aver avuto gloria e potere nella stessa Roma papale, si apprestava a tagliarsi un regno verso il Mezzogiorno, quando un’anonima mazzata in testa, alla battaglia d’Aquila, stese a terra il capitano e col suo sogno quello della sua città.
Eppure Perugia s’irrigidì e volle tener testa coi Baglioni.
Ma quando Leone X tratto alla perugina il pericoloso capo di quella famiglia, facendolo venire a Roma a render conto, e ordinando che gli fosse tagliata la testa, allora il vecchio grifo, avvilito, strinse le unghie e chinò la testa. E Perugia divenne la città pia, la città dei flagellanti che avevano messo giudizio.
E fu un gran centro di francescanesimo non solo nei conventi e nelle chiese dei Minori, ma nello spirito delle sue innumerevoli confraternite ed opere pie. Finalmente Francesco sarebbe potuto tornare a Perugia in pace, la pace dell’irrevocabile sera d’ogni giorno umano.
Ma al tempo in cui il Crocifisso di San Damiano chiamava il figlio di Bernardone alla grande ascesa spirituale, in quella terra umbro-etrusca, al di là del Tevere non v’era un ambiente vitale per far spuntare l’Ordine della Pace e della mansuetudine; v’era posto solo per il primo miracolo di san Francesco, che nessuna agiografia ha notato, e che noi teniamo a segnalare per i primi. Una banda di giovani assisani fa una delle cento scorrerie nel territorio perugino; il Grifo li adunghia; quelli che non morirono o non fuggirono, furono fatti prigioni, e recati in città. Fra questi v’era Francesco di Bernardone. Un prigioniero politico in quelle condizioni, a Perugia, era un uomo spacciato. Ebbene, Francesco venne lasciato libero. Fu il suo primo miracolo. Dopo la sua morte, nel luogo dove aveva corso il più gran pericolo della sua vita, Perugia eresse una splendida chiesa con il grandioso convento di San Francesco al Prato. Al lato gli sorse la magnifica cappella di S. Bernardino (altro santo popolarissimo a Perugia) davanti alla quale cappella si tagliava la testa ai condannati. Si vede che tra il carcere . . . politico e il luogo del ceppo correvano pochi passi: restò il ceppo dopo la gran chiesa e la gentile cappella dalla facciata maiolicata dal Ducci.
Più tardi Francesco tornò a Perugia, già venerato; e vi tenne un commovente discorso per indurre i perugini alla pace ed alla concordia fra loro e coi vicini. Qui mancò il secondo miracolo – sarebbe stato troppo -; e Perugia restò entusiasta dei frati minori e delle guerre civili.
Questo fosco paesaggio spirituale al disopra del Tevere serve di sfondo a meglio far risaltare il lucido quadro di pace dell’Umbria serafica. Non già che anche là, come dappertutto, non vi fossero prepotenti e lotte, ma non dominavano, incumbo indeprecabile, l’ambiente come, tra Arezzo e Perugia, là donde doveva venire al francescanesimo il turbolento cortonese frate Elia e dove, al contrario di Chiara e delle altre sante umbre entrate nel convento e nella santità tra la pace comune, la compatriota di frate Elia vi entrava per una terribile tragedia, dopoché la bellissima giovane mondana, Margherita, andata a passeggio, fu attratta dai guaiti del cane verso un fossato dove ella vide il cadavere del signore suo amante, pugnalato dai nemici. Anche Rita da Cascia ebbe il marito assassinato, e scongiurò i figli di perdonare; quando questi mostrarono non declinare dalla legge del sangue, ella pregò Dio che li raccogliesse avanti di macchiarsi, e, lasciato il mondo, entrò tranquillamente nel chiostro dell’ umile cittadina, resa poi illustre dalla Santa delle api e delle rose.

Questo fu l’ambiente locale, il cielo d’argento e d’azzurro, in cui s’inquadrano la tonaca grigia e le rosse stimmate di Francesco il quale andò nel paese del sangue due volte ma per trovarsi la solitudine piena, non facile nel suo mite paese: una volta, si ritrasse in una deserta isola del lago Trasimeno per trascorrervi un’austerissima quaresima, l’altra volta ascese la selvaggia cima della Verna dove Cristo fiammante e sanguinante lo attendeva per stigmatizzarlo, onde il demonio si « estremisse » allibito -come canta Jacopone -, credendo di Vedere in Francesco il Crocifisso.

Se tale fu il nido ove nacque il francescanesimo, immensamente più vasta fu l’aura che in quel momento spirava nel cielo cattolico. Parliamo del momento storico.
Abbiamo visto quel cielo oscurato da nere nubi, solcato da folgori apocalittiche: la tempesta del catarismo e delle sètte affini. Ma abbiamo constatato altresì che, pur durando il turbine, il vento cambiava di direzione: il valdesismo, eversivo per il suo montanismo, si orientava verso una direzione che poteva essere la buona: i Poveri di Lione, col loro torbido demagogismo, indicavano, peraltro, l’orientamento a cui sfociava lo spiritualismo ascetico e rinunziatario che segnala ogni fine di epoca. La foga irresistibile della rinunzia e della concentrazione spirituale, da noi constatata dal tramonto teodisiano dell’Impero al suo funerale teodoriciano, la «fuga» e il «recesso» dei Gerolami, dei Pignani, dei Cassiodori, delle Paole e delle Melanie, non si spiegano con la paura dei Barbari, ma piuttosto col sentimento della irrimediabile decrepitezza sociale in mezzo alla quale si viveva. Tutto l’epistolario di Gerolamo ne trasuda; le sue sfuriate celano a malagio l’accorata tristezza, la quale una volta erompe alla notizia della presa di Roma da parte di Alarico: fenomeno effimero, che non sembrava avesse un domani, ma segnale tangibile che tutto finiva.
Così è nel fosco tramonto dell’idea medievale, attraverso lo sfacelo della sua ormai vecchia attuazione. Tutto il trasognare del Vangelo Eterno, come tutta la spinta nel cielo sempre sereno di sopra le nuvole, da parte della scuola renano-fiamminga degli Amici di Dio, tutto sente la fuga dal tristo presente, il recesso da un mondo in putrescenza. Ed ecco il fenomeno travolgente della rinunzia: vendere quello che si ha e dare ai poveri. Nelle leggi misteriose eppure sì armoniche che reggono la spiritualità umana, v’é quella della quaresima mistica, un tempo che s’impone per reazione dopo i rimpinzamenti invernali che sul piano spirituale sono gli eccessi sociali del potere e della ricchezza, cioè dell’ambizione, della boria, della concupiscenza. In quel momento di reazione, il meglio della cristianità fa penitenza per tutti – é la eterna missione dei buoni -; ed allora si sprigiona un movimento caratteristico, quello che abbiamo ora constatato, al cadere della epoca classica, ed a quello della medievale.
Ma tale aura, mossa irresistibilmente, può essere spinta su buona come su cattiva direzione, essere feconda di bene e di male, od anche semplicemente sterile. Allora la mano di Dio si manifesta.
Torna l’esempio antico. Le «fughe» dei soprannominati asceti, dei Gerolami e delle Melanie, erano ottimi fenomeni, ma poco meno che individualistici, senza influenza fuorché nella stretta cerchia degli amici; intanto la deviazione si manifestava in quegli avventurieri erranti sotto la tonaca dell’eremita vagante, che il fiero Stridonense fustigò da pari suo: i sarabaiti, che furono i Poveri di Lione del tempo gerolimiano; tanto é vero che più si cambia e più é la stessa cosa.
Ma nel mondo della civiltà cristiana, al grigio tramonto di un’epoca Dio accorda di colorarsi della luce aurorale del tempo nuovo. Sorge allora l’uomo che concentra in sé l’anima innumerevole della cristianità anelante all’auspicato sbocco. Benedetto da Norcia fu quel condensatore del momento storico in ciò che questo ebbe di più puramente, più altamente spirituale; ed egli piantò la quercia immensa alla cui ombra benefica rifioriva la vita morale e sociale del mondo cristiano: il benedettinismo del periodo barbarico-bizantino e dell’alto medioevo.
Similmente Francesco ci appare veramente il Serafico, cioè l’anima angelicata, che nella sua inenarrabile intensità mistica, può condensare e rappresentare l’innumerevole anima cattolica del suo tempo, anelante alla rinunzia ma per arricchire con migliori tesori, al recesso, ma per uscirne, temprata, alla riconquista cristiana del mondo aberrante. Ecco la multiforme figura dell’Assisate: lui nudo davanti al padre avaro, lui cinto di rozza tonaca della stoffa incolore tessuta pei poveri, con una trama bianca e una nera; lui trafitto sul Golgota aretino dalle stimmate di Cristo, lui predicante la pace ai cittadini inferociti, lui che impone il disarmo personale ai suoi terziari, per cominciare da loro il disarmo morale della guerra endemica, lui che, acceso apostolo, va in Oriente in pieno Islam, e dice al Soldano le verità cristiane, gettando le basi di quella missione plurisecolare d’Oriente che ha per centro e monumento glorioso la Custodia di Terrasanta. Se i suoi figli Giovanni da Pian di Carpine e Giovanni da Montecorvino, non saran coronati di successo nel loro ardimentoso tentativo presso i tartari, la loro stessa presenza nel campo dei Khan, dimostra quale gigantesca spina apostolica racchiudesse il gesto di Francesco missionario: saranno infatti le ossa dei suoi frati martiri, riportate dai pii e prodi portoghesi dal Marocco, che toccheranno il cuore del canonico lisbonese e ne faranno il grande Antonio di Padova, predicatore indefesso di fronte ai paterini, e vindice santamente temerario della calpestata giustizia e umanità di fronte a quel tiranno che fu Ezzelino da Romano, il peggior «tartaro» d’allora.
Tutto questo arcobaleno che si designa sul cielo sconvolto della crisi medievale, come simbolo di pace e di speranza, è Francesco: egli condensa i colori del tempo nuovo sullo sfondo del vecchio. Tutto il momento storico, in quanto ha di fiducioso slancio verso il domani, anela in petto al Poverello, al Serafico.
Ecco l’uomo e il suo ambiente; la nostra penna che non si è mai illusa di essere all’altezza di certe figure grandiose della storia cristiana, si sente ben meschina di fronte a lui. Ma è lui che l’ha animata per rievocarlo. (continua)