2018 Comunicati  19 / 09 / 2018

Omaggio al gen. Hermann Kanzler / II parte

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 70/18 del 19 settembre 2018, San GennaroGeneral_Hermann_Kanzler-2 copia
 
Omaggio al gen. Hermann Kanzler / II parte  
 
Segnaliamo la seconda parte dell’articolo tratto dalla rivista Sodalitium (n. 69, luglio 2018) dedicato al gen. Kanzler (https://www.sodalitium.biz/wp-content/uploads/Soda-it69.pdf)
 
Nel 130° anniversario della morte del gen. Kanzler, Ministro delle Armi e Comandante supremo delle Forze Pontificie all’epoca di Pio IX, Sodalitium ricorda la figura del fedele servitore della causa papale con una scheda biografica tratta dal volume “Le carte Kanzler-Vannutelli dell’Archivio Vaticano. Inventario”, a cura di Vanessa Polselli (Archivio Segreto Vaticano 2013).
 
Hermann Kanzler (cenni biografici)
 
Dalla sua nomina e fino al 1870, per cinque anni, gli ordini del giorno ed i decreti del pro ministro indicarono la strategia militare sottesa alla guida della Armata pontificia: una riorganizzazione strutturale (centralizzata) che passava attraverso la preparazione, la formazione e l’addestramento di ogni componente l’Armata stessa; un piano di difesa militare capace di difendere adeguatamente lo Stato Pontificio da attacchi interni o esterni.
Unica riforma – cui il generale teneva particolarmente per ragioni di ordine difensivo – a non essere portata a termine per mancanza di tempo fu quella relativa alla formazione di un corpo di seconda linea costituito di volontari che avrebbe dovuto sostenere sul territorio bellico la prima linea garantendo così il consolidamento della difesa. Tale riforma richiedeva infatti tempo non tanto per l’arruolamento quanto per la organica formazione dei membri del corpo stesso. Ma tempo non ce né era.
Se febbrile fu il lavorio di riorganizzazione dell’Armata, altrettanto febbrili furono i movimenti garibaldini ed italiani in tutta la penisola. 
Il 1867 si configurò come il primo vero e proprio tentativo di pressione sullo Stato pontificio volto ad un suo capovolgimento. Di ciò erano consapevoli entrambe le parti. All’interno delle mura romane vennero organizzati alcuni focolai di rivolta – una bomba alla caserma Serristori; il concentramento di armi e garibaldini presso il Lanificio Aiani; lo scontro a Villa Glori – che però sembrarono non raccogliere quell’entusiasmo forse atteso e sperato dai rivoluzionari. All’esterno dello Stato pontificio, si venne organizzando da parte per lo più garibaldina – ma con il tacito appoggio della truppa regia che infine sconfinò – una vera e propria campagna militare che sia a sud che a nord tentava di varcare i confini dello Stato papale con l’obiettivo di giungere a Roma. Poiché da diverso tempo giungevano presso il ministero delle Armi notizie circa un eventuale tentativo di sconfinamento, le truppe pontificie vennero schierate e distribuite sul territorio in modo tale da arginare quanto più possibile detti tentativi, in tal senso risulterà estremamente rapido ed efficace il sistema di trasmissione e di comunicazione telegrafica nonché il sistema di cifrazione messo a punto dal dicastero.
Per il pro ministro era chiaro che «Dalla parte di Viterbo l’Acerbi e dalla parte di Frosinone il Nicotera non erano incaricati che di fare delle diversioni, ma il maggior numero dei Garibaldini si era riunito nella Comarca, coll’intendimento di attaccare Roma». Gli scontri a fuoco ebbero inizio nel viterbese il 28 settembre e nell’agro romano (Comarca di Roma) il 4 ottobre. Tra numerosi combattimenti con non pochi caduti e feriti e la proclamazione dello stato d’assedio della città di Roma il 25 ottobre, si giunse infine alla lunga battaglia di Monterotondo (25 ottobre) cui prese parte il generale Garibaldi ed all’altrettanto impegnativo scontro di Mentana cui prese parte il Corpo di spedizione francese (3 novembre) che pose fine alla campagna militare del 1867. Così ne scrisse il generale nel suo rapporto al pontefice:
Il combattimento di Mentana, considerato come fatto d’armi non ebbe le proporzioni di una battaglia, nondimeno produsse decisivi risultati. La disfatta di Garibaldi poneva il termine alla invasione dell’attuale Territorio Pontificio, contro la quale si lottava da cinque settimane.
 
Il combattimento di Mentana che vide la vittoria del piccolo esercito pontificio – se pure coadiuvato dall’armata francese – e la sconfitta di Garibaldi certamente non creò illusioni né mutamenti nel pro ministro circa la direzione futura degli eventi. Tra il 1867 ed il 1870, continuarono i lavori di ristrutturazione e stabilizzazione dell’Armata pontificia e del dicastero delle Armi nonché i lavori di fortificazione delle mura e delle zone preposte alla difesa. Continuarono gli arruolamenti ed il piccolo esercito si configurò sempre più come una compagine realmente internazionale.
Nel frattempo i tentativi di conciliazione promossi dal sovrano italiano Vittorio Emanuele II nel corso del tempo che separa Mentana da Porta Pia non riscossero alcun successo. Kanzler preparò l’esercito a difendere il più possibile la Santa Sede secondo alcune linee strategiche e tattiche già sviluppate e sperimentate nella campagna del 1867 ovvero rafforzamento della difesa della città Leonina e del Forte S. Angelo – destinato ad essere base di tutte le operazioni – e concentramento progressivo delle truppe pontificie a Roma e nella piazzaforte di Civitavecchia per evitare di esporle ad essere isolatamente sopraffatte e a garanzia di una maggiore tutela della capitale.
La partenza definitiva nel luglio 1870 del Corpo di spedizione francese e gli eventi di politica internazionale che coinvolsero Francia e Prussia (con la sconfitta della prima a Sedan) mostrarono chiaramente come Roma ed il Governo Pontificio fossero rimasti nelle sole mani della sua armata e, come scrisse Pio IX, «di Dio».
Dal 1 luglio al 20 settembre trascorsero più di sessanta giorni. Che cosa fece in questo lasso di tempo il generale pro ministro? Come organizzò la difesa nel rispetto degli ordini impartiti dal papa e, soprattutto, tali ordini erano certi e definitivi?
Il gen. Kanzler, di formazione militare, ben poco sembrava affidarsi al caso, alla provvidenza o tanto meno alla speranza di un qualsiasi intervento estero o almeno non poteva davvero tenerne conto nel preparare una linea di difesa. Egli sapeva bene che il numero di forze a sua disposizione non era e non sarebbe stato sufficiente a sconfiggere il numeroso Esercito italiano, tuttavia era altrettanto consapevole e convinto della possibilità di una difesa ad oltranza della città di Roma, una difesa da svolgersi entro la cinta muraria che avrebbe portato ad una caduta onorevole dell’Esercito da lui guidato e ad una manifestazione chiara agli occhi dell’Europa della violenza protratta ai danni del papa. Medesima opinione nutrivano i due generali al suo fianco, Raffaele de Courten e Giovan Battista Zappi, nonché il ten. col. Atanasio de Charette, comandante degli Zuavi Pontifici e fidato braccio destro di Kanzler, già dal 1867.
Quanto ai piani ed ai movimenti di difesa, due dovevano essere le zone presidiate e votate alla resistenza vera e propria: Civitavecchia e Roma. I comandanti delle diverse zone militari avevano infatti l’ordine di ripiegare su Roma – le cui mura nel frattempo venivano munite di cannoni ed affidate ad un veloce risanamento da parte del Genio Pontificio – non appena avessero intravisto il rischio di essere tagliati fuori, e quindi isolati, dalle truppe italiane. Tale piano sembrava essere approvato anche dal cardinale Antonelli che il 20 agosto sottoscriveva quanto dal gen. Kanzler e dallo stato maggiore pontificio era stato stabilito sull’evenienza dello sconfinamento delle truppe italiane: le truppe pontificie dovevano cioè mantenersi, anche dopo che le truppe italiane avessero sconfinato, nelle piazze occupate, e non ritirarsi che all’avvicinarsi del nemico. Le sole guarnigioni delle piazze di Civitavecchia e di Civita Castellana dovevano fare una qualche resistenza onde constatare la violenza dell’invasione. 
(…) Il 10 settembre il conte Gustavo Ponza di San Martino si recò come emissario del re dal pontefice e da questi venne ricevuto: lo scopo era quello di consegnargli una lettera di Vittorio Emanuele II con varie proposte concrete ed indurre quindi il papa a permettere l’ingresso delle truppe italiane nel suo stato in generale e nella città di Roma in particolare. Pio IX, persuaso che gli italiani non sarebbero mai entrati a Roma con la violenza, rifiutò fermamente. Kanzler, ricevuto dal pontefice in serata insieme al maggiore Fortunato Rivalta dello Stato Maggiore, cominciò quello stesso giorno ad emanare direttive ed ordini del giorno relativi alla messa in difesa della città di Roma quali chiusura ed interramento delle porte di ingresso alla città, fortificazione delle mura e disposizione dei cannoni lungo di esse, proclamazione dello stato di assedio, richiamo a Roma di molti distaccamenti ancora operanti nella provincia e, successivamente, istituzione di un Comitato di Difesa e di vari osservatori nella città di Roma. Tra l’11 ed il 13 settembre avvennero i primi reali sconfinamenti da parte dell’Esercito italiano. I distaccamenti dell’Esercito pontificio che presidiavano le province cominciarono rapidamente il ripiegamento su Roma, con l’eccezione della colonna de Charette che si volse, in un primo tempo, in direzione di Civitavecchia dove lasciò una compagnia per coadiuvare la difesa della città. La roccaforte, secondo gli ordini ricevuti dal pontefice e quindi dal generale Kanzler, avrebbe dovuto opporre una parziale resistenza all’invasione italiana («pochi colpi da tirarsi contro il nemico»), tuttavia a seguito di diversi avvenimenti, si arrese imbelle la notte tra il 15 ed il 16 settembre.
Nei giorni successivi alla resa-presa di Civitavecchia, ovvero tra il 16 ed il 19 settembre, mentre le truppe italiane sembravano alternativamente avanzare e stazionare ci fu uno scambio di lettere fra il generale Raffaele Cadorna (comandante generale del Corpo d’esercito d’osservazione dell’Italia Centrale), il generale Kanzler ed il pontefice che di fatto non mutò la posizione dei due interlocutori. E mentre si faceva sempre più chiaro il luogo presso cui l’Esercito Italiano avrebbe tentato l’ingresso nella città, ovvero la zona fra Porta Salaria e Porta Pia, Kanzler cercò di ottenere dal pontefice indicazioni più chiare e più onorevoli circa la difesa da opporre all’ingresso dell’esercito nemico. Il 19 settembre pertanto, alla vigilia di quella che tutti ormai sapevano essere la data stabilita per l’attacco della zona indicata, Kanzler, de Courten e Zappi parlarono con Pio IX delle modalità di difesa e della sua durata. Era infatti necessario sapere esattamente quando deporre le armi perché le condizioni potessero essere le migliori possibili in termini di armistizio e di onore. I militari ritenevano che obbligare l’esercito italiano a cannoneggiare la città e combattere fino a quando questi fosse riuscito ad aprire una effettiva breccia nella cinta muraria potesse ritenersi una dimostrazione congrua di violenza e di usurpazione, ma anche un onorevole scontro bellico. La città, secondo Kanzler, era perfettamente in grado di difendersi ad oltranza. Pio IX acconsentì alle richieste dei suoi generali e modificò in tal senso la precedente lettera da lui già scritta in data 14 settembre con le indicazioni per la difesa di Civitavecchia e di Roma. Tale lettera venne pubblicata su La Civiltà Cattolica del 7 gennaio 1871.
(…) L’attacco alla città di Roma ebbe inizio alle 5,15 e si protrasse anche oltre l’innalzamento della bandiera bianca avvenuta in più punti tra le 9,35 e le 10,00. Lo scontro fra i due eserciti fu violento e concitato, nutrito da entrambe le parti dall’emozione e dall’entusiasmo per la difesa del proprio ideale. Secondo le testimonianze, l’ingresso a Roma dell’Esercito italiano accompagnato da molta gente al suo seguito avvenne in modo non del tutto pacifico e non del tutto rispettosa fu la sua condotta in città.
Dopo la firma della capitolazione avvenuta quello stesso giorno presso Villa Albani tra le 14,00 e le 17,30, Kanzler, accompagnato dal maggiore Rivalla e dal conte de Beaumont, si recò in Vaticano per riferire al pontefice quanto avvenuto. Il 21 settembre, con la lettura del suo ordine del giorno ai capi dei Corpi della disciolta Armata pontificia su Piazza San Pietro, si può dire concluso il suo ministero. All’età di 48 anni, decidendo di rimanere presso il pontefice – risiedette in Vaticano con la famiglia fino alla morte di Pio IX, avvenuta nel 1878 – Kanzler aveva ormai posto fino alla sua carriera militare ed in nessuna occasione entrò in conflitto o in polemica con il governo italiano, mantenendo sempre un contegno riservato e rispettoso.
Negli anni successivi al 1870 e fino alla sua morte, benché non esistesse più alcun Ministero delle Armi, egli continuò ad avere il titolo di pro ministro ed in tale veste si occupò degli ex militari del disciolto Esercito pontificio seguendone le richieste e le suppliche e avendo la responsabilità della distribuzione dei sussidi elargiti loro dal pontefice. Unica memoria del passato da generale era il discorso che al termine di ogni anno egli rivolgeva al pontefice a nome del disciolto Esercito pontificio, che in tale occasione cercava di essere presente a Roma almeno nei suoi maggiori rappresentanti (generale de Courten, generale Zappi, ten.-col. de Charette).
Alla morte di Pio IX, Kanzler con la sua famiglia si trasferì fuori le mura vaticane in uno stabile sito al numero 3 di via San Luigi dei Francesi occupando un piccolo appartamento al primo piano. Le condizioni economiche dell’ex pro ministro – avendo egli rifiutato la pensione offertagli dallo Stato Italiano – non erano del resto tali da permettergli molti lussi. In tale situazione, fu costretto a chiedere un incremento dell’assegno di cui beneficiava.
L’estate, fuggendo il caldo di Roma, era solito trascorrere alcune settimane a Borgo a Buggiano (Pistoia) presso la Villa Bellavista, acquistata e voluta più dalla moglie Laura che da lui, o presso le Terme di Rapolano, a causa di un disturbo alla pelle e di una fistola che in modo ricorrente si apriva sul piede rendendogli difficili gli spostamenti.
Il 1° febbraio 1887 venne nominato barone da Leone XIII e questa volta, diversamente da quanto avvenuto nel 1867, accettò il titolo scrivendone in questi termini al cognato Ugo Pepoli: forse ti sarai meravigliato che io abbia ora accettato con riconoscenza il titolo di Barone mentre dopo Mentana aveva ricusato uno più elevato. Ma spero che metterai buone le ragioni che ti darò del mio contegno. Un titolo elevato senza i mezzi corrispondenti per sostenerlo nell’alto quadro è un vero peso. Il titolo di Barone almeno è più in relazione colla mia modesta situazione finanziaria. L’inaspettata manifestazione del S. Padre è una prova dell’approvazione del S. Padre di quanto operarono le truppe pontificie sotto il mio comando “in tempi difficilissimi” come si esprime il breve di investitura. In questo senso è stato accolto anche dai miei antichi subordinati come vedrai dall’articolo della Fedeltà che ti mando. Poi mi si è fatto riflettere che un titolo ereditario potrà giovare in certe circostanze al mio figlio, cosa non si farebbe di certo per esser utile al figlio? Mi ha fatto piacere vedere la mia nomina accolta in modo assai cordiale e cortese dai parenti ed amici non solo, ma dai compagni d’armi e dall’alta società romana affezionata al Papa. Perfino i fogli liberali che in altri tempi mi hanno bersagliato di satire e di basse calunnie hanno avuto il buon gusto di serbare in questa circostanza un dignitoso silenzio.
La sua vita stava ormai per giungere a termine. Il 22 dicembre 1887, no¬nostante le difficoltà procurategli dalla riapertura della piaga al piede, tenne il consueto discorso di saluto al pontefice a nome del disciolto Esercito pontificio. Tornato a casa, si mise a letto nella speranza di potersi presto alzare. La notte tra il 5 ed il 6 gennaio 1888, senza aver mai perso conoscenza e avendo avuto modo di salutare amici e famiglia, morì. Aveva 65 anni.
L’8 gennaio 1888 ebbe luogo, secondo la sua volontà, un sobrio funerale presso la parrocchia di S. Maria Maddalena. La funzione venne seguita da parenti, amici, ufficiali, prelati e politici. Il corpo fu sepolto nella tomba di famiglia presso il cimitero del Verano, ove tuttora si trova.