2012 Comunicati  22 / 10 / 2012

Hebron città dei patriarchi… e dell’apartheid

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 88/12 del 22 ottobre 2012, San Teodoro

Hebron città dei patriarchi… e dell’apartheid

Dopo duemila anni la pace non è ancora arrivata nella terra di Gesù. Diario di una volontaria salesiana (tratto dal Bollettino Salesiano, dicembre 2011)

La visita della città è organizzata da un’associazione culturale chiamata Hebron-France. Nell’accoglierci ci affidano subito alla nostra guida, una giovane ragazza palestinese, da pochi giorni laureata in lingue, di religione musulmana, come la quasi totalità degli abitanti della città. La visita della città comincia in una sala del loro ufficio: una carta geografica della Città Vecchia, grande quanto la parete, reca un titolo curioso: Hebron, a puzzled city (Hebron: una città puzzle). A farle da cornice tanti pezzi di puzzle, raffiguranti la stessa carta geografica, ma separati l’uno dall’altro e mescolati. La nostra amica ci spiega che la Città Vecchia, di circa 1 km quadrato di estensione, è oggi una sorta di città fantasma, divisa da circa 100 check point. La città è caratterizzata da blocchi e confini interni, presidiati da militari israeliani, che non consentono il libero movimento da una strada all’altra, e quindi la rendono divisa, come un puzzle che non si può ricomporre.
Hebron è una delle città più antiche al mondo (la sua fondazione risale a circa 4000 anni prima di Cristo) e sicuramente una delle più antiche e continuativamente abitate di cui si abbia memoria. Nel 1917 il Mandato britannico, nel 1948 la nascita dello stato di Israele; dal 1950 al 1967 Hebron è sotto il controllo giordano, ma con la Guerra dei Sei giorni nel 1967, la sponda occidentale del Giordano (West Bank – Cisgiordania), compresa Hebron, viene occupata da Israele. Il fatto che la città racchiuda nel suo cuore le tombe dei Patriarchi ne fa la seconda città santa per gli Ebrei (dopo Gerusalemme), la quarta per i Musulmani (dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme), e un luogo sacro anche per i Cristiani, che tuttavia sono pressoché assenti dalla città (nel censimento del 1933 risultavano 15.727 musulmani, 523 ebrei e 82 cristiani, ndr). Siamo quindi nel cuore di un luogo in cui convergono le tre grandi religioni e in cui – accanto all’apice del sacro – troviamo l’apice dell’odio e delle divisioni, anziché dell’unione, come fossero due opposti imprescindibili, i due poli di una calamita.
La nostra guida palestinese ci mostra i segni tangibili della separazione e dell’interdizione di molte zone agli arabi: il suk (mercato tipico dei paesi arabi) è quasi deserto; moltissimi esercizi commerciali sono stati chiusi dall’esercito, o hanno chiuso i battenti per motivi economici, moltissime case sono state abbandonate e le architetture dei tempi dei Mamelucchi stanno andando alla rovina; i posti di blocco sono moltissimi: griglie metalliche, cancelli girevoli, soldati, fucili, metal detector.
Comincio a rendermi conto di quanto difficile sia la vita per gli abitanti di Hebron quando vedo quei pochi negozietti aperti, contornati a destra e a sinistra da porte metalliche (le nostre saracinesche) chiuse e arrugginite, gli sguardi di negozianti che vorrebbero venderti qualcosa, ma sinceramente ciò che vendono non incoraggia l’avventore.

«Io non posso proseguire»
Ad un certo punto della “passeggiata”, la nostra guida deve fermarsi: “Non posso proseguire” ci dice, “quella è una strada che non posso attraversare perché sono araba”… Come sarebbe a dire? “Quella è la Strada dei Martiri, su cui solo gli ebrei (e gli stranieri) possono passare”.
Non è bello guardare in faccia una persona, per giunta una giovane e bella ragazza con la faccia pulita e angelica, che ti dice: voi andate avanti da soli, fate il giro per di là e io vi attendo dall’altra parte… Non posso dimenticare la scena di noi che proseguiamo e lei che si volta e se ne va, di fronte a una barriera invisibile, ma tanto concreta quanto le altre… una scena che ho voluto fotografare, non per piacere ma per farvi vedere che è vero… per non dimenticare. E, come per magia, un enorme pesante fardello ci piomba sulle spalle, sullo stomaco, in gola… un vortice di sensi di colpa, rabbia, incredulità, amarezza, tristezza profonda. Camminiamo in silenzio, scioccati, lentamente… mi giro indietro, lei non si vede quasi più… Nel resto della camminata incrociamo un paio di allegre famiglie di coloni e gruppi di soldati; anche da quella parte non è che lo spettacolo sia migliore, la desolazione è ovunque. Una città divisa è una città triste da entrambe le parti, checché se ne possa pensare. L’aria è pesante, carica di odio e tensione, di rivalità, mentre i Patriarchi dormono il loro sonno eterno al centro di tutto. Finalmente giriamo l’angolo e lei è lì, che ci aspetta: si ferma prima del posto di blocco (corredato di soldato con fucile, stavolta)… Sorride quando ci vede… a me viene da piangere… sullo sfondo la strada semivuota, con una corsia laterale sulla sinistra, separata dal resto della strada da un guardrail di cemento: lì dentro possono camminare gli arabi.
Noi andremo via fra poche ore, ma lei e la sua gente rimarranno lì… Per noi un’esperienza di un giorno, per loro una vita vissuta così, all’insegna della separazione, dell’odio, della violenza, della follia, dell’apartheid, che pochi conoscono, ma che il mondo, di fatto, non facendo nulla per contrastarlo, accetta.

Biesseonline