2017 Comunicati  13 / 11 / 2017

Crimini comunisti: i preti nei gulag sovietici

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova Insorgenzaprete_gulag
Comunicato n. 92/17 del 13 novembre 2017, San Diego

Crimini comunisti: i preti nei gulag sovietici

La censura democratica ha cancellato dalla storia le migliaia di sacerdoti e religiosi imprigionati, torturati, condannati ai lavori forzati e uccisi dal Comunismo, in particolare nell’Europa dell’Est e in Asia. Per i farisei della storiografia ufficiale non c’è spazio per i martiri cattolici vittime del materialismo marxista-leninista; in particolare nelle scuole, parlare dei gulag è un tabù. Nel centenario della rivoluzione russa, segnaliamo la vita di uno dei tanti sacerdoti cattolici vittime del comunismo.

Il prete polacco che fu internato in un gulag sovietico

Don Ladislao Bukowinski (1910-1974) trascorre 13 anni ai lavori forzati: il suo pulpito era in un gulag comunista. Un giorno un giudice ateo lo coglie sul fatto: «Cosa fai?». «Sto pregando». «Ma è proibito». «Si calmi, in futuro pregherò in modo che lei non se ne accorga». Sostiene: «La Provvidenza agisce talvolta anche attraverso gli atei, che mi hanno mandato là dove serviva un prete»

(…) Ladislao Bukowinski è uno dei martiri dell’Unione Sovietica, anche se materialmente non ha versato il sangue. Il «Libro nero del comunismo» di Stéphane Courtois indica una cifra agghiacciante: 85 milioni di morti nel mondo causati dal totalitarismo comunista, soprattutto sotto la dittatura assassina di Josif Stalin: chiunque non condivideva l’ideologia atea del comunismo doveva essere ucciso, allontanato dalla società, rinchiuso nei «Gulav», che in russo sta per «Direzione principale dei campi di lavoro correttivi».

Wladyslaw (Ladislao) Bukowinski nasce il 22 dicembre 1904 a Berdyczów, allora Polonia e oggi Ucraina, primogenito di una famiglia di proprietari terrieri. Studia a Kiev: mentre la Polonia è invasa dai bolscevichi, il 24 settembre 1921 sostiene l’esame di maturità come esterno. All’Università Jagellonica di Cracovia si laurea in Giurisprudenza. Vuole farsi prete e studia Teologia. Una grave malattia lo aiuta ad approfondire la fede. È ordinato sacerdote il 28 giugno 1931 dal cardinale arcivescovo-principe di Cracovia Adam Stefan Sapieha. (…)

Don Berdyczów presta servizio come catechista e viceparroco. Nel 1936 raggiunge la regione polacca di Volinia dove svolge molti ministeri: insegnante in Seminario, ritiri parrocchiali, catechismo nelle scuole, dell’Azione Cattolica, direttore dell’Istituto di Scienze religiose, redattore  della rivista «Vita cattolica». Dal settembre 1939 è parroco della Cattedrale di Luck, che cade sotto l’impero sovietico: visita gli anziani, le persone sole, i malati gravi. Corre a prestare conforto e soccorso ai polacchi condannati dai sovietici alla deportazione in Siberia.

Fino al 22 giugno 1940 quando è imprigionato dai bolscevichi che un giorno nella prigione sovraffollata sparano all’impazzata sui detenuti per ridurne il numero. Il prete ne esce miracolosamente indenne. Scarcerato il 26 giugno 1941, soccorre i fuggitivi e i prigionieri di guerra; salva molti bambini, compresi quelli ebrei. Nella notte tra il 3 e il 4 gennaio 1945 è nuovamente arrestato con il vescovo e l’intero Capitolo della Cattedrale. Accusato di essere una spia del Vaticano è condannato ai lavori forzati senza processo, è deportato e internato nel campo di Czelabinsk in Siberia, costretto a tagliare legna e a scavare fossi; poi nel campo di Žezkazgan – attuale Kazakhstan – nelle miniere di rame per dieci ore al giorno.

In questi tormenti rende una fulgida testimonianza. All’alba, mentre gli altri prigionieri dormono, celebra Messa su una panca per paramenti gli stracci della prigionia, visita i malati nell’ospedale del campo, tiene conferenze, conforta gli sventurati compagni. Non si lamenta mai, non impreca contro i persecutori, anzi li benedice. Una notte, mentre si reca a confessare un detenuto, è sorpreso da una guardia che gli sferra un ceffone.

La pena è ridotta per buona condotta: il 10 agosto 1954 è liberato e deportato a Karaganda, capitale del Kazakhstan, come guardiano di un cantiere edile. Nel 1955 gli propongono di tornare in Polonia ma preferisce diventare cittadino sovietico per restare fedele alla sua missione perché la cittadinanza gli permette di muoversi.

Il 3 dicembre 1958 è imprigionato per la terza volta con l’accusa di aver formato una chiesa illegale, di aver fatto propaganda tra i bambini e i giovani, di possedere materiale antisovietico. Ricordando gli studi di Giurisprudenza si difende da sé: la sua arringa è così efficace che i giudici lo condannano alla pena più leggera, tre anni di lavori forzati.

Deve spesso curarsi perché la prigionia e i lavori forzati lo hanno sfibrato (…) Il 25 novembre 1974 crolla, celebra l’ultima Messa (speriamo quella autentica, ndr), riceve l’Unzione degli infermi, il 3 dicembre 1974 muore sfinito. I suoi resti mortali sono venerati nella cripta della Cattedrale di Karaganda.

(…) Fu accusato, imprigionato e inviato più volte ai lavori forzati, trascorse più di 13 anni in campi di lavoro. In un tempo di persecuzioni religiose fatte di sofferenze fisiche e morali, don Bukowiński trovava il suo porto sicuro in una fede in Dio profonda, solida, incrollabile. Il lager divenne il pulpito da cui educava all’amore di Dio e alla riconciliazione con il prossimo: anche nell’esperienza più umiliante non dimenticò mai la sua missione.

Prega in continuazione, nonostante i divieti. Un giorno un giudice ateo lo coglie sul fatto: «Cosa fai?». «Sto pregando». «Ma è proibito». «Si calmi, in futuro pregherò in modo che lei non se ne accorga». Scriverà: «La Provvidenza agisce talvolta anche attraverso gli atei, che mi hanno mandato là dove serviva un prete». Aggiunge Amato: «In mezzo a un popolo umiliato e oppresso fu l’uomo della speranza. Era convinto della rinascita della Chiesa in Oriente e del ritorno della Russia a Cristo».

Un giorno, mentre celebra la Messa a Karanga, arriva la milizia sovietica e gli ordina di smettere. Usciti i soldati, dice ai fedeli: «Chi vuole uscire esca, ma io continuerò». Nessuno esce. Dice un giorno: «La mia felicità sta nella felicità degli altri».

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